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sabato 26 ottobre 2013

Crisi. Prigionieri del presente.




Su Il Sole24ORE del 25 ottobre 2013 Alessandro Plateroti chiude il suo ampio esame della situazione con un rilievo meritevole di approfondimento:

"Ormai è chiaro a tutti che ci muoviamo in uno scenario in cui la globalizzazione impedisce misure unilaterali, ma interessi divergenti condannano alla paralisi. Il vecchio sistema di regole e certezze sta crollando, il nuovo nessuno lo intravvede o tenta di costruirlo perché tutto si intreccia con la crisi e la minaccia di un aggravamento finanziario o dell'economia reale. Tutti vivono alla giornata - operatori, governi, istituzioni soprannazionali - e hanno paura di progettare il futuro. Sembra che nel mondo si sia diffusa una nuova malattia che si credeva soltanto italiana: inseguire il presente rimanendone prigionieri. E allora si spiega quel che sta succedendo sui mercati".

Come un buco nero il presente attrae ogni risorsa materiale ed intellettuale. Ciò pare determinante e ineluttabile nell'Occidente democratico, con poche eccezioni. Perfino la retorica obamiana conferma l'assunto: apparentemente guarda al futuro, in realtà tende a perpetuare l'alleanza tra l'illusione ed il bisogno che ha consentito l'elezione del presidente USA.
Per quasi tutte le società occidentali è molto difficile spezzare le catene del presente. E' venuto meno il supporto della memoria generazionale e le principali agenzie educative hanno fallito. Alla diffusa inadeguatezza degli strumenti di analisi si accompagna quella di valori e tradizioni, che può rivelarsi fatale per la democrazia liberale. Montesquieu è spesso citato a sproposito sulla cosiddetta separazione dei poteri, mentre restano memorabili le sue osservazioni sui presupposti di una democrazia libera e vitale:

"E' nel governo repubblicano che si ha bisogno di tutta la potenza dell'educazione...la virtù politica è una rinuncia a sè, cosa che è sempre molto penosa. Si può definire questa virtù, l'amore delle leggi e della patria. Quest'amore, richiedendo una preferenza continua verso l'interesse pubblico in confronto al proprio, conferisce tutte le virtù particolari: esse non sono altro che tale preferenza. Quest'amore è particolarmente legato alle democrazie. Soltanto in esse il governo è affidato ad ogni cittadino" (MONTESQUIEU, Lo spirito delle leggi, Capitolo quinto).
Tale patrimonio morale dà lungimiranza ai governanti, chiamati a non pensare soltanto al consenso elettorale, ed agli elettori che li giudicano. Esso caratterizzava i più notevoli esponenti dell'Italia che seppe tenere il passo dell'Europa migliore, statisti come Cavour, Giolitti, De Gasperi ed Einaudi, ma anche uno dei più brillanti generali del Ventesimo secolo, Enrico Caviglia, che nel suo diario annotò la seguente riflessione:

"L'uomo politico deve tenere conto delle grandi correnti di interessi e di sentimenti e saper distinguere le correnti transitorie da quelle che additano ai popoli la via da seguire a scadenza di generazioni.
Deve conoscere la situazione morale, politica ed economica generale per valutare con tranquilla coscienza gli elementi e i fattori che interessano il suo popolo.
Se sarà invece assorbito completamente dalla situazione interna del proprio Paese e da interessi immediati che premono ad ogni piè sospinto, egli non guiderà il suo popolo, ma andrà con quello alla deriva" (Enrico CAVIGLIA, I dittatori, le guerre e il piccolo re - Diario 1925-1945 - A cura di Pier Paolo Cervone, pag.39).


venerdì 18 ottobre 2013

Cina. Il ruolo della memoria generazionale.



Su Asianews del 5 ottobre 2013 Paul Wong riassume un'intervista che He Weifang, professore di diritto all'Università di Pechino (Beida), ha concesso al South China Morning Post.
Secondo il giurista cinese, autore di un microblog molto seguito, "il Partito comunista cinese deve fare dei passi per ridurre il suo monopolio sulla società, garantendo anzitutto l'indipendenza della magistratura e la libertà di stampa e passando poi alla libertà dei sindacati e delle organizzazioni sociali".
"Negli ultimi mesi" - scrive ancora Wong - "sulle pubblicazioni del Partito si è combattuto con forza l'idea del costituzionalismo, cioè il mettere la costituzione al di sopra del Partito. Secondo alcuni articoli, questa mossa fa perdere potere al Partito e rischia di portare la Cina al collasso, come è avvenuto per l'ex Unione sovietica".
Lo scontro verte dunque sul governo costituzionale e lo stato di diritto. Quali sarebbero le conseguenze sociali ed economiche dell'adesione della Cina al modello di stato che prevale in Occidente? In Cina il regime autocratico controlla investimenti e salari, decide il tasso di risparmio, conserva un welfare corto che copre e costa poco, impone le esternalità negative della produzione. Tutto ciò si risolve in un rilevante vantaggio competitivo rispetto ai concorrenti occidentali. Ancora oggi, mentre la crisi continua, l'economia cinese rallenta ma non si arresta.
Ma perchè il peso dell'autocrazia e l'assenza di genuine garanzie dei diritti delle persone e dei corpi sociali intermedi non provocano rivolte in grado di rovesciare il regime? Uno dei principali fattori che frenano le tendenze eversive è rappresentato dalla memoria generazionale. Molti cinesi ricordano la drammatica povertà e la crudele repressione subite durante i lunghi decenni che seguirono la nascita della Repubblica Popolare, raggiungendo livelli intollerabili durante la Rivoluzione culturale. I giovani che non erano ancora nati ascoltano i loro padri e i loro nonni. Quando la memoria generazionale non rappresenterà più un efficace fattore di sopportazione, il regime dovrà fronteggiare un'opposizione più robusta, determinata e diffusa.
L'attuale mercato socialista cinese presenta chiare analogie con la NEP sovietica. In entrambi una limitata e vigilata libertà di impresa è accompagnata da un rigido monopolio del potere detenuto dal partito comunista. La NEP sovietica lasciò rapidamente il posto alla stretta staliniana perché le promesse della Rivoluzione erano ancora sufficientemente credibili ed attraenti, perché il vicolo cieco dell'utopia non era stato esplorato fino in fondo. Quando le nuove generazioni cinesi non ricorderanno l'orrore e non crederanno più ai racconti degli anziani le sirene rivoluzionarie, tuttora operanti, ritorneranno ad affascinare e a suggestionare. La distanza e il conflitto tra ideologia e realtà rappresenteranno di nuovo un potente fattore rivoluzionario.

venerdì 11 ottobre 2013

Destra radicale. Nostalgia della libertà o del suo contrario.


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Sul Corriere della Sera dell'11 ottobre 2013 Antonio Polito scrive:

" Come dimostrano i Tea Party, capaci di prendere in ostaggio il Grand Old Party repubblicano spingendo l'America fino al limite del default, o i sondaggi di Marine Le Pen in Francia, o l'affermarsi di partiti antieuro in Austria e in Germania, il vento della storia non soffia certo oggi nelle vele dei moderati".
Ma negli USA, come si ricava dai verbali di una recente riunione dei membri della Federal Reserve, "i progressi del mercato del lavoro ... «sono deludenti» e la crescita è ancora «debole»". Su questo sfondo va collocato l'attuale duro scontro tra Democratici e Repubblicani. Chi pone a rischio la tenuta finanziaria degli Stati Uniti senza ottenere risultati apprezzabili? Obama, con la sua politica economica "accomodante", o i Tea Party, che chiedono di ripristinare condizioni favorevoli per investimenti, impresa e lavoro richiamandosi alla tradizione?
E' sbagliato riferire le stesse espressioni di condanna a realtà molto diverse tra loro. Ciò che fa la differenza tra "conservatori"  e distingue un "reazionario" dall'altro è appunto ciò che si intende conservare o a cui si vuole ritornare. Evidentemente non è la stessa cosa guardare alla Dichiarazione di Indipendenza USA del 1776, al regime mussoliniano o alla Francia che si riconobbe nella visione del maresciallo Petain.
Oggi i cosiddetti moderati sono chiamati a scelte radicali in tema di welfare, concorrenza, lavoro e fisco. Sono queste indispensabili ma spesso impopolari riforme a contraddistinguere la buona politica. Viene in primo piano così la necessità di trovare a tali riforme un adeguato consenso. Occorre una evidente ed efficace lotta agli sprechi, ai privilegi intollerabili, allo sperpero del denaro pubblico. Altrimenti i tentativi di riforma consegneranno il potere proprio ai movimenti populisti e illiberali che destano la preoccupazione di chi sui media esamina gli sviluppi della crisi.

giovedì 3 ottobre 2013

Italia. Destra e libertà.




Su La Stampa del 3 ottobre 2013 Luigi La Spina ritorna su una questione a lungo dibattuta: perchè l'Italia non ha una genuina destra liberale, paragonabile ai partiti liberalconservatori che esercitano un importante ruolo nelle altre democrazie occidentali?
Tra le recenti opere che hanno affrontato anche questo interrogativo si distingue Tre giorni nella storia d'Italia di Ernesto Galli della Loggia, che qui scrive lucidamente: la "...democrazia illiberale - illiberale nella sostanza, nel modo concreto di funzionare, nella cultura generale della società - è stato il volto autentico della modernità politica italiana" (op.cit., 2010, p.18). Ma questo esito non era inevitabile.
 In vista delle elezioni del 1913 i liberali del cattolico Giovanni Giolitti conclusero un accordo con l'Unione Elettorale Cattolica Italiana (UECI), un'associazione laicale diretta da Vincenzo Gentiloni, alla quale lo stesso papa Pio X affidò il compito di far partecipare i cattolici italiani alla vita politica. L'informale Patto Gentiloni ebbe grande successo. Con il suffragio universale maschile nel 1913 i liberali di Giolitti ottennero il 51% dei voti e 260 eletti su 508, 228 dei quali avevano sottoscritto gli impegni previsti dall'accordo. Giolitti era riuscito a far entrare i cattolici nelle istituzioni nate dal Risorgimento, nel segno di un liberalismo pragmatico e rispettoso di ogni libertà, religiosa compresa.
 Questa compagine liberale, contraddistinta dalla presenza di numerosi cattolici, era maggioritaria e poteva evolversi in quel movimento moderato, liberale e aperto alla partecipazione dei cattolici che oggi molti auspicano. Ma altri esponenti del Cattolicesimo italiano tentavano di costituire un partito di cattolici, che fu fondato nel 1919 da don Luigi Sturzo. Il Partito Popolare di Sturzo si ispirava alla Dottrina sociale della Chiesa, con il programma di rinnovare a fondo la politica e la società italiane. Perseguendo questo ambizioso obiettivo si oppose al ritorno al governo del vecchio ma esperto Giolitti, solo statista italiano in grado di precludere a Mussolini la conquista del potere. Dino Grandi, forse il più intelligente gerarca fascista, ha espresso un duro giudizio sull'operato di Sturzo:

 "Il veto di Sturzo al ritorno di Giolitti fu in effetti il più grande servizio che il prete di Caltagirone avrebbe potuto rendere al movimento fascista per cui, non a torto, Sturzo è stato paradossalmente definito da taluni come uno dei padri della marcia su Roma" (Dino GRANDI, Il mio paese. Ricordi Autobiografici, ed.1985, pag. 157).

Con il regime mussoliniano si rafforzò la deriva illiberale della società e della cultura italiane, che  non riuscì a trovare poi un argine efficace. Tale non si rivelò l'opera di De Gasperi, pur segnata dalla collaborazione con uno dei pochi grandi liberali italiani, Luigi Einaudi,  a cui lo statista trentino affidò l'economia dell'Italia distrutta e sconfitta. De Gasperi era guidato da sincere convizioni liberali, mentre il secondo presidente della Repubblica era cattolico. Il liberalismo einaudiano, lontano da ogni astratto dogmatismo, guardava alla tradizione e alle istituzioni liberali delle democrazie occidentali.
Ma Einaudi non ottenne un secondo mandato come presidente della Repubblica e De Gasperi dovette lasciare la guida del governo. Ad essi va principalmente riconosciuto il merito della rapida ricostruzione del paese, eppure la loro influenza sulle istituzioni e sulla politica italiane non fu durevole. Nel 1942 Einaudi recensì sulla Rivista di storia economica (giugno, pp. 49-72)  Die Gesellschaftskrisis der Gegenwart di Wilhelm Röpke, il padre dell'economia sociale di mercato tedesca. La corrispondenza di idee e valori lascia intravedere ciò che sarebbe potuto avvenire e non è avvenuto. Röpke fornì il supporto teorico a un robusto movimento liberale e moderato, capace di dare un apporto decisivo alla costruzione di una ricca e libera democrazia, mentre quelle di Luigi Einaudi restarono Prediche inutili.
Tuttora il nostro paese, prigioniero di una cultura illiberale e statalista, è incapace di esprimere un partito conservatore non delle anomalie che hanno condotto al declino, ma dei valori e delle tradizioni che hanno rese grandi le democrazie occidentali.

giovedì 26 settembre 2013

Riforma dello stato sociale. Il modello olandese.







Sul Corriere della Sera del 24 settembre 2013 Alesina e Giavazzi scrivono:


"Il governo dice che la ripresa dell'occupazione richiede una forte riduzione delle tasse sul lavoro. Giusto, ma bisogna capire l'ordine di grandezza. Il ministro del Lavoro Giovannini punta a una riduzione del cuneo fiscale (la differenza tra ciò che paga l'impresa e quanto va in tasca ai dipendenti) di 5 miliardi: ne servono 50 per portarlo al livello tedesco".

Questo infatti è il punto fondamentale: l'ordine di grandezza. Gli stessi economisti nell'editoriale lo definiscono ricordando che:

"Solo nel 2013 il Documento di economia e finanza (Def), pubblicato la scorsa settimana, stima che la spesa al netto degli interessi aumenterà di circa 10 miliardi, da 714 a 724 miliardi".

"Spendiamo, al netto di interessi, pensioni, sanità e interventi sociali circa 250 miliardi l'anno".

Si deve sottolineare che i fattori della competitività e della capacità di attrarre gli investimenti non si risolvono nel solo cuneo fiscale. Basti pensare a burocrazia, legislazione sul lavoro, relazioni industriali, costo dell'energia, banda larga, corruzione, criminalità organizzata, sistema scolastico. Ma certamente la pressione fiscale/contributiva su lavoro e impresa riveste un ruolo determinante.
In Italia un taglio della spesa pubblica di 50 miliardi non basta. Occorre infatti molto di più per ridurre efficacemente la pressione fiscale e, nel contempo, realizzare le infrastrutture indispensabili che i privati non possono o non vogliono costruire, senza accrescere il già enorme debito pubblico. Sembra plausibile la necessità di risparmiare 150/200 miliardi.
Tale riduzione non si può evidentemente conseguire incidendo soltanto sui 250 miliardi "al netto di interessi, pensioni, sanità e interventi sociali". Va realizzata "spalmando" l'intervento su tutti gli oltre 800 miliardi di spesa pubblica. Ma soprattutto non limitandolo alla semplice razionalizzazione del sistema. Bisogna invece attuare un nuovo modello di paese e di società.

Pochi giorni fa il Re Guglielmo di Olanda, in un discorso che ha destato scalpore, ha previsto l'estinzione dell'attuale stato sociale, sostituito da  "... una società della partecipazione, nella quale i cittadini devono prendersi cura di se stessi, ed è la società civile a dover ideare soluzioni per questioni come la cura degli anziani”. L'Olanda si trova in una situazione economica migliore di quella italiana. Eppure il suo governo si appresta ad applicare con coraggio i principi della sussidiarietà e della responsabilità. Senza un radicale cambio di direzione di questo tipo il declino dell'Italia diventerà inarrestabile. Ma gli elettori italiani, soprattutto del ceto medio, sapranno accettare nuove responsabilità? Sapranno comprendere il senso e la necessità di una rivoluzione a cui non sono preparati?

martedì 17 settembre 2013

Papa Francesco risponde a Scalfari. Nel solco della Tradizione cattolica.



Con una lettera a Eugenio Scalfari del 4 settembre 2013, dunque non in sede magisteriale, il Pontefice interviene sui rapporti tra fede cristiana e cultura moderna.
Scrive Papa Francesco:

"... lungo i secoli della modernità, si è assistito a un paradosso: la fede cristiana, la cui novità e incidenza sulla vita dell’uomo sin dall’inizio sono state espresse proprio attraverso il simbolo della luce, è stata spesso bollata come il buio della superstizione che si oppone alla luce della ragione. Così tra la Chiesa e la cultura d’ispirazione cristiana, da una parte, e la cultura moderna d’impronta illuminista, dall’altra, si è giunti all’incomunicabilità. È venuto ormai il tempo, e il Vaticano II ne ha inaugurato appunto la stagione, di un dialogo aperto e senza preconcetti che riapra le porte per un serio e fecondo incontro".

" Questo, per la fede cristiana, è certificato dal fatto che Gesù è risorto: non per riportare il trionfo su chi l’ha rifiutato, ma per attestare che l’amore di Dio è più forte della morte, il perdono di Dio è più forte di ogni peccato, e che vale la pena spendere la propria vita, sino in fondo, per testimoniare questo immenso dono".

"...mi chiede se il pensiero secondo il quale non esiste alcun assoluto e quindi neppure una verità assoluta, ma solo una serie di verità relative e soggettive, sia un errore o un peccato. Per cominciare, io non parlerei, nemmeno per chi crede, di verità “assoluta”, nel senso che assoluto è ciò che è slegato, ciò che è privo di ogni relazione. Ora, la verità, secondo la fede cristiana, è l’amore di Dio per noi in Gesù Cristo. Dunque, la verità è una relazione! Tant’è vero che anche ciascuno di noi la coglie, la verità, e la esprime a partire da sé: dalla sua storia e cultura, dalla situazione in cui vive, ecc. Ciò non significa che la verità sia variabile e soggettiva, tutt’altro".

"...mi chiede se, con la scomparsa dell’uomo sulla terra, scomparirà anche il pensiero capace di pensare Dio. Certo, la grandezza dell’uomo sta nel poter pensare Dio. E cioè nel poter vivere un rapporto consapevole e responsabile con Lui. Ma il rapporto è tra due realtà. Dio — questo è il mio pensiero e questa la mia esperienza, ma quanti, ieri e oggi, li condividono! — non è un’idea, sia pure altissima, frutto del pensiero dell’uomo. Dio è realtà con la “R” maiuscola. Gesù ce lo rivela — e vive il rapporto con Lui — come un Padre di bontà e misericordia infinita. Dio non dipende, dunque, dal nostro pensiero".

Papa Francesco sottolinea e riafferma il nucleo cristologico della fede cristiana: Gesù è vero uomo e vero Dio, è figura storica, la sua Risurrezione è realmente avvenuta e attesta la verità del suo insegnamento. In questo senso la verità è relazione. Il cristiano la attinge dalla relazione con Dio. "Ciò non significa che la verità sia variabile e soggettiva, tutt’altro".

Nel Cristianesimo convivono le istanze della verità rivelata, della libertà e della dignità umane. La prima non prevarica sulle altre ma le esalta. La Chiesa cattolica ha acquisito una precisa consapevolezza di ciò attraverso un lungo e tormentato percorso.
Ma già l'illuminista Montesquieu ne Lo  Spirito delle Leggi osservò che:

"La religione cristiana è lontana dal dispotismo puro: infatti, essendo la mitezza tanto raccomandata nel Vangelo, essa si oppone alla collera dispotica con cui il principe si farebbe giustizia e metterebbe in pratica le sue crudeltà.

La religione cristiana, che sembra non avere altro fine che la felicità nell'altra vita, fa per di più la nostra felicità in questa.

.....dobbiamo al cristianesimo, nel governo un certo diritto politico, e nella guerra un certo diritto delle genti, di cui l'umanità non potrebbe mai essere abbastanza riconoscente" (op. cit., libro ventiquattresimo, capitolo terzo). 

Mentre Tocqueville volle con la sua opera "contribuire alla riconciliazione dello spirito della libertà e dello spirito della religione, della società nuova e del clero" (cfr. la Lettera al fratello citata in Charles-Augustin SAINT-BEUVE, Ritratto di Tocqueville, 2013, p. 97).

Un secolo dopo Luigi Einaudi, secondo presidente della Repubblica italiana, giurista ed economista liberale eminente, in uno scritto purtroppo poco noto, manifestò il profondo legame della sua fede con la Tradizione cattolica:

 "Ma la comunità dei credenti non è composta dei soli uomini viventi oggi. Essa vive nelle generazioni che si sono succedute da Cristo in poi. Ognuna di quelle generazioni ha trasmesso quella parola alle generazioni successive; ed ogni generazione ha sentito quella parola e vi ha creduto perché essa era stata sentita e in essa avevano creduto i suoi avi. La parola di Cristo è viva in noi non perché essa sia stata scritta sulle pergamene e nei libri stampati. Sarebbe cosa morta se così fosse. Ma ognuno di noi l'ha sentita dalle labbra della mamma e della nonna. Mettiamoli in fila questi uomini e queste donne che in ogni famiglia hanno trasmesso oralmente gli uni agli altri i comanda­menti divini; amatevi gli uni gli altri, non fate agli altri ciò che non vorreste fosse fatto a te stesso. Non sono molti: da venti a trenta persone bastano a ricondurre la tradizione trasmessa ad ognuno di noi da un antenato il quale viveva al tempo del Messia" (Introduzione a Pietro BARBIERI, L’ora presente alla luce del Vangelo, Roma,1945, pp. V-VII).

Dunque una parte importante della cultura moderna critica e liberale già è vicina al Cristianesimo, già ne conosce e apprezza la portata storica, sociale e culturale. L'appello del Pontefice trova un terreno fertile ed accogliente in questo pensiero critico, in grado di riconciliare cristianesimo e modernità proprio nel segno della libertà e della dignità umane.



mercoledì 11 settembre 2013

Afghanistan. L'altra guerra che seguirà.



Su La Voce della Russia del 9 settembre 2013 Vadim Fersovič delinea l'evoluzione dell'intervento occidentale in Afghanistan dopo il 2014. Scaduto il mandato NATO le forze occidentali saranno ridimensionate e si limiteranno a formare, consigliare ed assistere le truppe e la polizia nazionali afgane. Questi i compiti indicati ai media dai governi. Ma, secondo il redattore del sito internet russo, in realtà il loro impiego diretto continuerà. L'articolo, pur segnato da una traduzione manchevole e dal ricorso a sigle del passato (dal 2007 l'AISE ha sostituito il SISMI), offre un quadro non privo di plausibilità, anche se traspare una certa inclinazione a confondere le aspettative con la realtà.

Scrive Fersovič:

"Già nel 2010 il giornalista italiano Manlio Dinucci ha scritto che la CIA stava svolgendo in Afhanistan l’attivita di “esercito ombra” che si occupava non solo di raccolta di informazione ma anche di azioni di forza. Probabilmente, un lavoro analogo veniva realizzato nelle zone di propria responsabilità anche dai servizi speciali dell’Italia e della Germania".

"Così sarà risolto il problema della lotta contro i guerriglieri in cui vengono spese immense risorse umane e materiali. Quando nel 2015 i caporioni dei talebani usciranno fuori dai loro rifugi sicuri, gli agenti arruolati dalla CIA, dal BND e dal SISMI non avranno difficoltà non solo a seguire ma anche ad eliminare autonomamente gli “intransigenti”. Tali operazioni sono state già rodate nel corso dei raid congiunti dei reparti speciali afghani ed occidentali. Se tale strategia funzionerà, i caporioni dei guerrigieri subiranno su di sé i metodi da loro stessi usati.
In luglio esponenti ufficiali americani hanno dichiarato che nei prossimi due anni la CIA programma di ridurre fino a 6 il numero delle sue basi segrete in Afghanistan lasciando intatto il proprio centro a Kabul, uno dei maggiori al mondo. Centri analoghi saranno lasciati dalla Germania e dall’Italia. Gli agenti dell’intelligence ritorneranno al proprio lavoro diretto, mentre migliaia di afgani eseguiranno il lavoro che toccava prima a centinaia di migliaia di soldati della coalizione con spese incomparabimente minori e, più probabilmente, con un’efficienza di gran lunga maggiore".

Sono evidentemente anche e soprattutto questi i temi che possono riavvicinare Russi e Americani. Ma gli insorti afgani sanno bene cosa li attende.





martedì 3 settembre 2013

Parlamenti più forti, democrazie meno efficienti.

Luigi Einaudi

Sul Corriere della Sera del 2 settembre 2013 Antonio Polito ha esaminato il ruolo dei parlamenti occidentali, dando conto della tendenza al loro rafforzamento messa in luce dai più recenti sviluppi della crisi siriana:

"I due più antichi Parlamenti del mondo si sono presi una storica rivincita. In Gran Bretagna e negli Stati Uniti il governo ha dovuto riconsegnare nelle loro mani il più sovrano dei poteri, quello sulla pace e sulla guerra".

"La democrazia parlamentare, una delle più grandi invenzioni della civilizzazione anglosassone, sembrava ormai sopraffatta dall'emergere di un mondo nuovo, fatto di decisioni globalizzate e sovranazionali, o dettate dai sondaggi e incarnate da leader che ne rispondono solo al popolo. E invece, tra il popolo e il leader, ecco rispuntare il Parlamento".

"La decisione politica sta certamente rimpatriando all'interno della sfera nazionale, l'unica dove possa esercitarsi il controllo democratico dei Parlamenti. Ma resta da vedere quanto questo processo sia compatibile con gli obblighi di una comunità globale sempre più interdipendente".

"Festeggiando il ritorno dei Parlamenti, sarà dunque bene non dimenticare che nella forza della democrazia risiedono anche le sue debolezze, e che su quelle hanno sempre contato tiranni come Assad e autocrati come Putin. Anche perché una democrazia indecisa e imbelle smette presto di essere una democrazia".

La netta prevalenza del governo sul parlamento ha caratterizzato da molti decenni la forma di governo delle più forti e influenti democrazie occidentali. A lungo il parlamento di potenze come gli USA e la Gran Bretagna, sia pure con significative differenze,  ha svolto il ruolo di cassa di risonanza delle controversie politiche e ha sostanzialmente di solito ratificato le decisioni prese altrove dai grandi leader. Si tratta di un assetto ben noto ai costituzionalisti, che presuppone il bipolarismo e la selezione di statisti dotati di adeguate capacità.

Luigi Einaudi, economista e giurista liberale eminente, secondo presidente della Repubblica italiana, già sullo scorcio della Seconda guerra mondiale del parlamentarismo europeo scrisse:

"I parlamenti non sono società di cultura od accademie scientifiche. Sono organi, il cui scopo unico è quello di formare governi stabili e di controllarne l'azione. Come disse il primo ministro del primo governo laburista, Ramsay Mac Donald, le elezioni non si fanno per contare le opinioni, per fare il censimento (census, in inglese) delle sette, dei ceti, dei partiti, dei movimenti, dei gruppi sociali, religiosi, politici, ideologici in cui si fraziona una società, la quale sia composta di uomini vivi e pensanti; ma si fanno per mettersi d'accordo in primissimo luogo sul nome della persona che in qualità di primo ministro sarà chiamato a governare il paese, e in secondo luogo sul nome di coloro che collaboreranno con lui o che ne criticheranno l'operato. Le elezioni hanno cioè per scopo di creare il consenso (consensus e non census) intorno ad un uomo ed al suo gruppo di governo ed intorno a chi oggi sarà il suo critico e domani ne prenderà il posto se gli elettori gli daranno ragione. Se non si vuole l'anarchia, questo e non una sterile accademica rassegna di opinioni è lo scopo unico preciso di un buon sistema elettorale". 

Solo pochi possono governare, mentre tutti devono poter giudicare chi governa. Dai lontani tempi della democrazia ateniese di Pericle questo è il principio fondamentale della democrazia rappresentativa, di una democrazia efficiente, capace di risolvere problemi.
I parlamenti, grandi assemblee esposte alla pressione della volubile opinione pubblica, non riescono a prendere rapidamente le decisioni sovente impopolari in cui si deve risolvere l'attività di governo di un grande paese.
La crisi politica, economica e morale in cui sono cadute le grandi democrazie occidentali si esprime anche nella selezione di leader politici deboli, saliti spesso al potere cavalcando e fomentando il populismo e la demagogia. Non traggano in inganno i più recenti avvenimenti. L'abbandono dello schema contraddistinto dalla prevalenza del governo solo occasionalmente, come sulla prospettiva di un'azione militare in Siria, produce effetti positivi. Normalmente invece determina un indebolimento dei sistemi democratici, resi meno capaci di adottare e realizzare misure efficaci.


martedì 27 agosto 2013

Per uscire dalla crisi un approccio microeconomico.






Il Sole 24 Ore del 26 agosto 2013 riporta alcune dichiarazioni del presidente della Bundesbank Jens Weidmann. Le parole di Weidmann hanno suscitato ampia ostilità ma rappresentano un lucido richiamo a sciogliere i nodi fondamentali della crisi in atto.

"Le banche centrali - ha proseguito il numero uno della Bundesbank e membro del board Bce - non possono risolvere la crisi poiché i problemi che sottendono ad essa non sono legati alla politica monetaria. I dibattiti mostrano che la crisi non è finita e che c'è ancora molto da fare per superarla".

"La crisi in Grecia può essere superata solo con l'adozione di riforme, dal momento che «nuovi aiuti non bastano da soli a far diventare competitive le aziende ed a porre le basi durevoli per finanze solide». Il presidente della Buba aggiunge che l'intervento di Mario Draghi dello scorso anno di salvare l'euro a qualunque costo ha solo calmato i mercati, ma questa calma è «ingannevole». La discussione sui nuovi aiuti ad Atene mostra infatti che «la crisi non è finita e per superarla c'è ancora molto da fare». La conclusione di Weidmann è che «parlare di una rapida fine della crisi è sbagliato e indebolisce gli sforzi per le riforme»".

L'economia reale dell'Eurozona e degli Stati Uniti dà ancora segnali di sofferenza. Continuano le delocalizzazioni, soprattutto in Italia. L'occupazione non migliora significativamente. Gli investimenti restano largamente insufficienti: gli ordini di beni durevoli negli Stati Uniti sono calati in luglio molto più delle previsioni.
Per uscire dalla crisi occorre "far diventare competitive le aziende e porre le basi durevoli per finanze solide". Gli imprenditori e gli investitori devono trovare condizioni favorevoli per operare con successo. Le agenzie pubbliche hanno bisogno di riferimenti normativi e strumenti operativi adeguati. Le politiche monetarie cosiddette accomodanti, che guardano ai grandi aggregati statistici, possono far acquistare tempo, nella migliore delle ipotesi, ma non ripristinano i presupposti di una solida e vitale capacità del sistema di creare lavoro e reddito.

martedì 20 agosto 2013

Protezionismo e concorrenza nell'economia globalizzata.






 La Voce della Russia del 19 agosto 2013 richiama l'attenzione sul protezionismo, uno dei principali temi del prossimo G20 di San Pietroburgo:

"Appartiene ormai al passato il protezionismo classico, diretto, come il blocco continentale dell’Inghilterra durante le Guerre napoleoniche o il Boston Tea Party, quando le colonie americane insorsero contro il protezionismo inglese nel commercio del tè. Stanno scomparendo anche le guerre tariffarie, come, ad esempio, la contrapposizone sul mercato automobilistico tra Cina ed USA, che per mezzo dei dazi doganali difendevano dai concorrenti i propri mercati. Adesso i relativi metodi sono diventati di gran lunga più eleganti e la retorica più ricercata. Al summit del G20 tutti i paesi, più probabilmente, dichiareranno di sostenere il divieto del protezionismo e poi… troveranno metodi per aggirarlo, dice Viktoria Perskaja, vicedirettore del Centro di studi internazionali presso la Scuola per imprenditori di Mosca. Secondo Viktoria, a questi paesi non resta nient’altro da fare. Il protezionismo è richiesto dall’attuale economia post-crisi, mentre la diplomazia esige una rinuncia pubblica allo stesso.
Si sviluppa il settore reale nazionale, la reale produzione nazionale, mentre il segmento dei servizi si sta contraendo. Quei paesi che si rendono conto della necessità di un’economia nazionale più equilibrata e strutturata adotteranno misure per favorire il produttore nazionale. In questo caso non è affatto necessario introdurre dazi doganali. Basta utilizzare il sistema di stardard tecnici e così tutti i potenziali esportatori si vedranno costretti a corrispondere a tale livello".

Su Orizzonte Cina (giugno 2013), mensile d'informazione e analisi sulla Cina contemporanea a cura dell'Istituto Affari Internazionali (IAI) e del Torino World Affairs Institute (T.wai), Giuseppe Gabusi estende l'analisi alle ALS, aree di libero scambio, ponendo in rilievo la pressante istanza di sicurezza economica che continua a condizionare l' azione dei governi:

"La crescente tensione commerciale tra Bruxelles e Pechino riflette in realtà il deterioramento della sicurezza economica, intesa come sicurezza economica complessiva percepita dai governi e dall’opinione pubblica, in un periodo di recessione globale e di transizioni politiche interne. I nuovi accordi di libero scambio in corso di negoziato contribuiscono a rafforzare il senso di insicurezza delle maggiori potenze commerciali".

Le "... ALS rappresentano accordi commerciali di nuova generazione, il cui focus è soprattutto sulle barriere non-tariffarie, sui servizi, sugli standard e sulle normative, e sulle architetture istituzionali del commercio. Perciò, le ALS contribuiscono a erodere la distinzione tra politica estera economica e politica interna, e richiedono una visione (finanche una cultura) politica comune, assente tra le democrazie occidentali e la RPC".

"Non è un caso che Mark Tokola, vice-capo missione all’ambasciata americana a Londra, abbia dichiarato: “l’ALS tra l’Unione Europea e gli Stati Uniti potrebbe diffondere le norme occidentali in tutto il mondo”. Non si tratta più quindi di dazi o altri strumenti tecnici, ma di norme e di sottesi valori: è la prova del passaggio della politica commerciale dalla sfera della low politics a quella dell’ high politics". 

La crisi economica in atto ha le proprie profonde radici in una globalizzazione disordinata e tumultuosa, caratterizzata dalla mancata o insufficiente convergenza delle forme di stato e degli ordinamenti giuridici. I nodi di questa competizione viziata dalla radicale diversità dei sistemi, dalla diffidenza reciproca e dal protezionismo più o meno scoperto vengono al pettine.

Così conclude Gabusi:

"Il  rilancio  del  WTO  potrebbe  davvero  rappresentare un’occasione migliore e più efficiente per raggiungere un consenso multilaterale, rispetto alle discussioni segrete sui nuovi ALS, che stanno solamente aggiungendo insicurezza a un ordine economico liberale che, con tutti i suoi limiti, ha finora servito degnamente, in termini di crescita, Washington, Bruxelles e Pechino".

In realtà il mercato globale contemporaneo ha ben poco di liberale, non poggiando su regole comuni. Questo disordinato ordine economico rappresenta il contesto in cui sono diventati insostenibili non solo i vizi e le inadeguatezze ma anche alcuni dei tratti migliori delle democrazie occidentali.
Bisogna essere consapevoli del valore della concorrenza virtuosa, che deve essere il più possibile ampia, aperta e tutelata. L'istanza della sicurezza economica non deve soffocare tale consapevolezza e il conseguente tentativo di rimuovere barriere che penalizzano il merito e l'innovazione. In questa prospettiva l'ALS tra Europa e Stati Uniti potrebbe davvero essere "la risposta realista dell’Occidente all’impossibilità di progredire in sede WTO". Mentre non si può escludere che una chiara e ferma posizione occidentale si riveli un positivo stimolo per regimi autoritari che rispettano soprattutto la forza priva di accenti provocatori. 


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