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venerdì 28 dicembre 2012

Troppo stato, troppe imposte.



Alberto Alesina e Francesco Giavazzi sul Corriere della Sera del 27 dicembre 2012  espongono alcune importanti considerazioni  sulla cosiddetta Agenda Monti, ritornando su un tema fondamentale: la struttura e la sostenibilità del welfare italiano.

"Per diminuire in modo significativo la spesa pubblica, e quindi consentire una flessione altrettanto rilevante della pressione fiscale, è necessario ridurre lo spazio che lo Stato occupa nella società, cioè spostare il confine fra attività svolte dallo Stato e dai privati. Limitarsi a razionalizzare la spesa all'interno dei confini oggi tracciati (la cosiddetta spending review) non basta. Nel 2012 il governo ha tagliato 12 miliardi di euro; altri 12 miliardi di risparmi sono previsti dalla legge di Stabilità per il 2013. Troppo poco per ridurre la pressione fiscale. Abbassare la spesa al livello della Germania (di quattro punti inferiore alla nostra) richiederebbe tagli per 65 miliardi. Per riportarla al livello degli anni Settanta (quando la nostra pressione fiscale era al 33 per cento), si dovrebbero eliminare spese per 244 miliardi".

"C'è poi un problema di finanziamento della spesa sanitaria. Come abbiamo ripetuto più volte, non possiamo più permetterci di fornire servizi sanitari gratuiti a tutti senza distinzione di reddito. Che senso ha tassare metà del reddito delle fasce più alte per poi restituire loro servizi gratuiti? Meglio che li paghino, e contemporaneamente che le loro aliquote vengano ridotte".

"Oggi l'università è pubblica e funziona male. È finanziata da tutti i contribuenti, ma frequentata soprattutto dai più ricchi. È un sistema che trasferisce (con grandi sprechi) reddito dai poveri ai ricchi. Perché non far pagare le rette universitarie in modo meno regressivo?".

"Con un debito al 126 per cento del reddito nazionale e una pressione fiscale tra le più alte al mondo non si può sfuggire al problema di ridisegnare i confini fra Stato e privati. Illudersi che sia sufficiente "riqualificare la spesa" con la spending review rischia di nascondere agli italiani la gravità del problema".

E' noto da tempo il legame tra struttura del welfare e crescita economica. In Italia, nel 2004,  sempre sul Corriere della Sera, il professor Maurizio Ferrera, con riferimento ai paesi asiatici allora emergenti, rilevò che:

"Se è vero che il fiume dello sviluppo economico porterà il welfare state anche in Asia, non è detto però che si tratti di un welfare all' europea. Non è detto, in altre parole, che le economie asiatiche vedano in futuro esaurirsi il proprio vantaggio comparativo sotto questo profilo. Ciò che sta emergendo in Corea, Taiwan e Singapore è un sistema diverso dal nostro, molto più strettamente integrato con il mercato, tanto che la letteratura specialistica ha coniato il nuovo termine di "welfare state produttivistico". Tre sono gli ingredienti principali di questo modello: priorità all' istruzione e alla formazione; regolazione pubblica (ad esempio, obbligo di assicurazione medica o previdenziale), ma fornitura di prestazioni da parte di soggetti privati, tramite i canali del mercato; copertura gratuita solo per i più poveri".

Eppure, nonostante i ripetuti interventi di Alesina e Giavazzi, nel nostro paese stenta a decollare un dibattito pubblico su questi problemi di vitale importanza. Quali sono le ragioni di questo disinteresse? Quelle proposte dai due autorevoli economisti sono misure impopolari. Il ceto medio non intende assumersi la responsabilità di se stesso, non intende partecipare a una scommessa su un futuro che vede troppo lontano e indistinto. I politici non vogliono perdere consensi in questo settore decisivo dell'elettorato. Gli intellettuali, giornalisti compresi, si accodano ai loro referenti politici ed evitano di irritare un uditorio che mostra di preferire le illusioni alle analisi dirette a rappresentare la complessità e l'inadeguatezza del paese reale.
Occorre un'ampia, sincera e coraggiosa discussione pubblica che stimoli nell'elettorato una riflessione attenta e aperta. Purtroppo la propaganda elettorale sembra ancora in larga misura volta a suggestionare e a cercare facile consenso.

venerdì 21 dicembre 2012

Italia e Germania.




Sul Corriere della Sera del 19 dicembre 2012 una lunga intervista al ministro degli esteri tedesco Westerwelle, realizzata da Paolo Lepri.

"Sono assolutamente sicuro che la grande maggioranza degli italiani sa che la Germania non è responsabile dei problemi dell'Italia e del suo elevato debito pubblico. Noi tedeschi non vogliamo diventare il capro espiatorio per le omissioni dei responsabili italiani del passato. Non vogliamo nemmeno che l'Europa diventi il parafulmine per una campagna elettorale populista".

"Chi vuole ridurre la disoccupazione, e in particolar modo la disoccupazione giovanile, deve difendere la causa delle riforme e di una maggiore competitività. Oggi anche una politica sociale responsabile è una politica di riforme, capace di creare opportunità per tutti, e in particolare per i giovani. Con nuovi debiti, con nuove instabilità, non si creano posti di lavoro".

"Noi abbiamo preso la dura e difficile strada delle riforme. Abbiamo investito nell'educazione, nella scienza e nella ricerca, abbiamo accresciuto la nostra competitività, abbiamo ridotto il debito pubblico e siamo oggi al livello migliore da quando è stata realizzata l'Unità tedesca. Il nostro tasso di disoccupazione giovanile è il più basso di tutta Europa".

"La nostra politica per sconfiggere la crisi del debito non si limita infatti ai soli risparmi, ma poggia su tre pilastri: disciplina di bilancio con meno debiti, solidarietà - poiché gli europei sono uniti da un destino comune - e crescita. Ma per noi è chiaro che la crescita non si realizza con nuovi debiti, bensì con maggiore competitività".

"Potremo affermare il nostro modello di vita europeo di fronte alle nuove centrali del potere, come la Cina, soltanto se ci uniamo strettamente. In Europa si parla spesso di differenze di mentalità tra Est e Ovest, tra Nord e Sud. Soltanto quando siamo lontani - in Cina, India, Africa, America Latina - ci rendiamo conto del fatto che siamo una unica comunità culturale. C'è una "way of life" europea. Da noi non conta solo la collettività, ma l'individuo. La dignità umana è al centro della politica europea".

 I governanti tedeschi indicano sempre alla politica nell'epoca della globalizzazione i medesimi obiettivi, in larga misura interdipendenti: un welfare sostenibile, disciplina di bilancio con meno debiti, crescita conseguita con maggiore competitività e innovazione produttiva, integrazione europea, affermazione del modello di vita europeo nella competizione globale tra sistemi. Si tratta di una visione notevole per lucidità e lungimiranza, che non si può non condividere. Ernesto Galli della Loggia ha scritto:

"Pur con molti tratti particolari, l'Italia che nel 1914 si affacciava alla modernità era tutto sommato - nel suo impianto civile, amministrativo e di governo, nei suoi ideali - un paese molto simile agli altri della parte d'Europa che era la sua. Anche perchè, essendo arrivato all'Unità quasi spoglio di tradizioni e di un passato statale significativo, esso aveva dovuto prendere a prestito da altri paesi e trapiantarli in casa propria istituzioni, leggi, modelli organizzativi".
"... avevamo "copiato" da Francia e Germania soprattutto: e ci era riuscito senza troppe difficoltà".
"Dopo il primo conflitto mondiale, invece, inizia un'esperienza novecentesca che sempre più farà dell'Italia un paese con caratteristiche proprie e distinte" (Tre giorni nella storia d' Italia, 2010, pp. 8-11).

L'Italia giolittiana assunse come modelli di inclusione politico-sociale Francia e Inghilterra: il grande statista piemontese cercò di attuare la democrazia liberale italiana e di estenderne i diritti e le opportunità a settori sempre più ampi della popolazione. Ma il modello di sviluppo economico di riferimento fu la Germania. Giolitti avversò il suo militarismo, non amò la sua filosofia, ma conservò una profonda ammirazione per l'efficienza della sua pubblica amministrazione, la laboriosità del suo popolo e la capacità dei suoi imprenditori.
Dopo due sanguinose guerre mondiali il militarismo ed il nazionalismo tedesco sono stati sconfitti, annichiliti. La nuova Germania democratica è consapevole delle responsabilità tedesche e da alcuni decenni propone un modello che, nell'Occidente alla deriva, ha mostrato di rispondere meglio di altri alle sfide poste dalla globalizzazione.
Ancora una volta l'Italia che arranca sulla via della modernizzazione, con un ampio divario di competitività da colmare, ha bisogno di adottare un coraggioso approccio comparativo. In questa prospettiva deve guardare alla Germania, esempio da imitare, non alibi per fallimenti e inadeguatezze inescusabili.




venerdì 14 dicembre 2012

Lo smottamento dei ceti medi italiani.




Il 46° Rapporto sulla situazione sociale del Paese/2012 del CENSIS mette in evidenza lo smottamento del ceto medio italiano. Dario Di Vico sul Corriere della Sera dell'8 dicembre 2012 ha scritto:

"Il ceto medio che a spanne rappresenta il 60% delle famiglie sta subendo un netto declassamento, retrocede. I suoi redditi si contraggono, la ricchezza posseduta diminuisce, il posto di lavoro salta. Sotto i colpi della crisi la società, dunque, subisce un profondo mutamento".

"Il fenomeno, almeno per una volta, non è unicamente italiano ma attraversa tutti i Paesi sviluppati...".

"Per onestà va aggiunto che da noi è più bassa che altrove la mobilità sociale e il turnover generazionale più difficile. L'ascensore italiano viaggia al contrario e cresce quantitativamente la parte inferiore del ceto medio, ingrossata dalle famiglie straniere e dal vertiginoso incremento del numero dei singoli. La percentuale di connazionali che vive in «tipologie di famiglie non tradizionali» in meno di venti anni è cresciuta dal 7,6 al 17,3%".

Come sottolineato da Di Vico si tratta di un aspetto fondamentale della crisi che colpisce tutta l'Europa e gli Stati Uniti d' America. Ma il ceto medio italiano mostra, insieme a risorse già note, derivanti da una precedente inclinazione al risparmio e da una certa maggior solidità delle famiglie, anche fragilità peculiari determinate dalla sua origine e connesse a quelle del sistema paese.
In Italia il passaggio dalla società agricola a quella industriale è avvenuto in ritardo e rapidamente, quando il livello culturale della popolazione era ancora complessivamente molto basso: "prima del '14 si contava, in media, ancora il 40 per cento di analfabeti, cifra che nell'Italia meridionale e insulare arrivava al valore spaventoso del 60 per cento circa" (Ernesto GALLI DELLA LOGGIA, Tre giorni nella storia d'Italia, 2010, pp. 31 e 32). Nel Secondo dopoguerra certamente, alle soglie del "boom" economico, questo divario culturale rispetto alle società occidentali più avanzate rimaneva ampio e dagli effetti rilevanti.
Particolarmente importanti sono poi alcuni tratti del processo formativo del nostro ceto medio. Esso si è sviluppato in una economia assai più chiusa e protetta di quella attuale, caratterizzata da una forte presenza/ingerenza della politica. "Per tutta la durata della Prima Repubblica, attraverso il sistema delle partecipazioni statali, la politica, nel nostro paese, era stata la proprietaria diretta di oltre un terzo dell' economia" (E. GALLI DELLA LOGGIA, op. cit, pp. 108 e 109).
Occorre inoltre segnalare un altro fattore decisivo: il sistema italiano "da un certo punto in poi, diciamo dalla fine degli anni Sessanta, comincia ad abituarsi a spendere sempre di più grazie a una spesa pubblica ormai senza freni". Viene ampliata "la sfera dei diritti di cittadinanza costruendo un generoso sistema di welfare. E' precisamente la costruzione di  questo welfare - non sufficientemente finanziata da entrate fiscali che registrano un'altissima incidenza dell' evasione - a portare rapidamente a un'impennata inaudita delle spese dello Stato e quindi a una vera e propria esplosione del debito pubblico. In quindici anni, dal 1974 al 1980, il debito pubblico italiano si moltiplica di oltre cinque volte..." (E. GALLI DELLA LOGGIA, op. cit, pp. 109 - 111).
Il ceto medio giunge dunque alla presente crisi complessivamente privo di una genuina visione liberale, disabituato alla competizione regolata e, nell'ambito del welfare, a una generale ed effettiva applicazione del principio di sussidiarietà. Si trova quindi in larga misura disarmato culturalmente di fronte a una crisi determinata dalla nuova competizione globalizzata e dall'insostenibilità finanziaria dello stato sociale non strutturato secondo il principio di sussidiarietà.
Si tratta di una nuova normalità che impone l'adozione di misure coraggiose e lungimiranti. Il paese deve recuperare competitività riformando il welfare mediante una piena applicazione del citato principio di sussidiarietà, ridisegnando i confini del settore pubblico, diminuendo la pressione fiscale, abbassando il costo dell'energia, ponendo la scuola e la giustizia al servizio dei cittadini e delle imprese, snellendo la burocrazia, favorendo gli investimenti privati, lottando contro la corruzione e la criminalità organizzata.
Ma il ceto medio deve riposizionarsi per cogliere ogni occasione favorevole, indirizzare i giovani a una formazione scolastica tecnico-scientifica, meglio spendibile sul mercato del lavoro, accettare un nuovo welfare che non dia tutto a tutti ma si occupi di chi non ce la fa da solo, comprendere i vantaggi di una competizione regolata che consenta di premiare il merito e di ripristinare una sufficiente mobilità sociale, pretendendo una contestuale riduzione della pressione fiscale. 
Occorre insomma respingere l'illusione che possano esistere pasti gratis e resistere alla tentazione di sfasciare tutto per prendere pericolose scorciatoie . Il ceto medio italiano, denunciando l'inadeguatezza delle èlite, deve assumersi la responsabilità di sé e del proprio paese. Ma ha spalle sufficientemente robuste?                               

venerdì 7 dicembre 2012

La Cina dopo il XVIII congresso del Partito comunista.



Dagli analisti dello IAI Istituto Affari Internazionali alcune accurate analisi della politica, della società e dell'economia cinesi (pdf).
Il XVIII congresso del Partito comunista cinese ha espresso una chiara linea: mantenere la stabilità. Il processo di selezione delle massime cariche del partito è ormai altamente istituzionalizzato e tende a favorire i conformisti, anche per effetto della perdurante, penetrante influenza dei leader anziani. La democrazia intra-partito continua a non trovare attuazione, mentre tra i vincitori del congresso si rileva la presenza preponderante di "principi rossi", figli di importanti esponenti del partito durante la rivoluzione che condusse alla presa del potere. 
"Questi privilegiati discendenti della prima generazione di leader della Rpc sono oggi individui assai potenti: detentori di considerevole capitale simbolico, politico e finanziario, essi occupano posizioni-chiave in campi che vanno dall’economia nazionale alle forze armate. La loro reputazione è spesso macchiata dalla fama di nepotismo, clientelismo, disprezzo per le leggi, oltre che dalla brama di potere e di vantaggi economici che hanno consentito loro di accumulare immense fortune" (Maurizio Marinelli). 
Il nuovo segretario generale del partito Xi Jinping e la nuova dirigenza collettiva tenteranno di conservare al partito una supremazia supportata da sufficiente consenso. Per conseguire questo obiettivo dovranno superare gli ostacoli rappresentati dalla progressiva erosione dei pilastri ideologici del regime - economia socialista, materialismo dialettico, narrazione storica -, dall'impossibilità di fatto di controllare l'informazione, dal rallentamento della crescita unito alle sempre più accentuate disuguaglianze di reddito e di condizione sociale.
La situazione economica cinese pare in via di stabilizzazione, anche se i ritmi di crescita pre-crisi sono ancora lontani. Aumenta il reddito procapite, particolarmente della popolazione rurale. Il moderato incremento dei consumi interni non compensa il calo delle esportazioni e degli investimenti. Il governo ha attuato una politica di stimolo contenuta e consentito una stretta creditizia che sembrano dirette al perseguimento di uno sviluppo economico sostenibile nel lungo periodo.
Si prevede una sostanziale continuità con il passato nei rapporti con gli USA, anche se pesano la diversità istituzionale e il tentativo di distrarre dai problemi economici la popolazione cinese ravvivando i già diffusi sentimenti nazionalisti. Da segnalare l'esame dei rapporti tra Cina ed Australia e delle norme cinesi in materia di proprietà intellettuale, che destano la preoccupazione dei paesi occidentali non tanto per aspetti sostanziali ma per l'insufficiente attuazione. Degne di attenta riflessione pure le considerazioni sull'agenzia di rating cinese Dagong, che ha giudicato anche il debito sovrano italiano a lungo termine, declassandone il rating al livello BBB dal precedente A-.

giovedì 29 novembre 2012

Le Forze Armate italiane tra velleità e tagli.




Non si placano le polemiche sull'acquisto dei caccia F-35. Le tormentate vicende dell'acquisizione contribuiscono a rinfocolarle. La cronaca offre spunti per una riflessione di largo respiro sulle prospettive dello strumento militare italiano. Gary J. Schmitt ha esaminato gli obiettivi e le risorse delle  Forze Armate italiane per l'American Enterprise Institute.  L'Italia, rileva Schmitt, ancora nel 2011 era l'ottava economia del mondo, con una popolazione e un PIL paragonabili a quelli di Regno Unito e Francia. Ma, ormai tradizionalmente, la spesa pro-capite italiana per la difesa è sensibilmente inferiore a quella dei due alleati europei. Dal 2007 le risorse per la formazione e la modernizzazione sono diminuite di oltre il 40% e 30%, rispettivamente.
I tagli imposti dalla preoccupante condizione della finanza pubblica comportano non solo la riduzione degli organici ma anche il ridimensionamento dei principali investimenti già pianificati. Così l'Esercito avrà meno carri armati e artiglieria, la Marina meno fregate FREMM e sommergibili di ultima generazione, l'Aviazione, appunto, meno caccia. Mentre i compiti del nostro apparato militare restano gravosi, le risorse sono ridotte all'osso.
Ciononostante molti si scandalizzano per l'ammontare delle spese per nuovi armamenti. Si propongono altre destinazioni, certo più attraenti ad uno sguardo superficiale. Si grida allo spreco. Ma se continuiamo a ritenere necessario che il paese disponga di Forze Armate, allora dobbiamo destinare una parte adeguata delle risorse pubbliche al mantenimento della loro efficienza. Come ha efficacemente rilevato il ministro della Difesa Giampaolo Di Paola "La sicurezza è un bene condiviso la cui responsabilità è di tutti. Un Paese come l'Italia non può sottrarsi a questo dovere. Le Forze armate possono essere più piccole ma non meno efficienti. Altrimenti si fa prima a chiuderle".
E' evidente che, in quest'ambito, il massimo sperpero del denaro pubblico si ha conservando uno strumento militare comunque assai costoso eppure privato delle risorse indispensabili per il conseguimento dei suoi scopi istituzionali. Senza dimenticare che "La credibilità della forza militare dipende... oltre che dai mezzi di cui essa dispone, dagli uomini che la costituiscono, dalla chiarezza e fermezza politica di chi la governa e dalla solidità del consenso del quale potere politico e Forze Armate possono godere all'interno del Paese" (Piero OSTELLINO, Luigi CALIGARIS, I nuovi militari - Una radiografia delle Forze Armate Italiane, 1983, p. 33).
Purtroppo pare che trovare "chiarezza e fermezza politica" e ottenere "solidità del consenso" sia ancora più difficile che reperire soldi per le Forze Armate.

giovedì 22 novembre 2012

L' esplosione.



In un editoriale sul Corriere della Sera del 20 novembre 2012 il professor Giovanni Sartori, con la franchezza che la fama, l'autorevolezza e l'età gli consentono, denuncia la situazione potenzialmente esplosiva in cui versa la società italiana.

"Se manca il lavoro, chi deve rimediare? Sembra ovvio: lo Stato. Ma lo Stato è già, di per sé, un colossale datore di lavoro. È anche, purtroppo, un cattivo datore di lavoro che spende male, che spende troppo e che, almeno da noi, è intriso di corruzione mafiosa e privata. Anche così è bene che l'opinione pubblica si renda conto della mole di spese che lo Stato deve oggi affrontare".

"Come si vede, lo Stato di costi e di incombenze ne ha. E quando ha pagato gli interessi sui suoi sprovveduti debiti si ritrova senza un copeco in cassa".

"Come si vede, lo Stato ha già di per sé moltissimo da fare e da spendere. Ed è bene che si fermi nell'ambito che ho appena ricordato e che lasci libera la massa di persone che sono o che dovrebbero essere addette alla produzione di beni, nonché dei servizi non serviti dallo Stato".

"...tutte le insurrezioni, tutte le rivolte, presuppongono uno stato di privazione relativa nel quale chi teme una ricaduta nella miseria si ribella. Che poi le ribellioni risolvano i problemi non è detto. Ma intanto avvengono, e non possono essere ignorate".

"In questa situazione una società libera rischia di esplodere e di sfasciarsi".

Questo stato grosso, non grande, è incapace di fronteggiare i gravi problemi che assillano i suoi cittadini, soprattutto più giovani. Tale grosso apparato pubblico spende oggi in Italia 800 miliardi, più della metà del PIL, svolge male i suoi compiti essenziali e soffoca con il suo peso l'impresa ed il lavoro. Da molti decenni è violato il principio fondamentale il cui rispetto rende sostenibile ed efficiente la pubblica amministrazione, quello di sussidiarietà: il potere pubblico deve svolgere soltanto le attività che i privati in forma individuale o associata non riescono a compiere, deve assistere solo chi non può soddisfare da sé i propri bisogni fondamentali.
Questo principio si trova già abbozzato ne La ricchezza delle nazioni di Adam Smith, uno dei grandi precursori del liberalismo:

 " Al primo dovere del sovrano, quello di proteggere la società dalla violenza e dall'aggressione di altre società indipendenti, si può adempiere solo per mezzo di una forza militare."

"Il secondo dovere del sovrano, quello di proteggere, per quanto possibile, ogni membro della società dall'ingiustizia e dall'oppressione di ogni altro membro della società stessa, cioè il dovere di instaurare un'esatta amministrazione della giustizia".

"Il terzo e ultimo dovere del sovrano o della repubblica è quello di erigere e conservare quelle pubbliche istituzioni e quelle opere pubbliche che, per quanto estremamente utili a una grande società, sono però di natura tale che il profitto non potrebbe mai rimborsarne la spesa a un individuo o a un piccolo numero di individui, sicché non ci si può aspettare che un individuo o un piccolo numero di individui possa erigerle o conservarle...opere e istituzioni di questo genere sono principalmente quelle per facilitare il commercio della società e quelle per promuovere l'istruzione della popolazione" (op. cit., Libro quinto).

Mafia, corruzione e sperpero del denaro pubblico hanno moltiplicato le conseguenze di vizi  strutturali comuni a molte altre società occidentali. Mentre la globalizzazione e la competizione con le turbo economie delle nuove potenze precludono il ricorso a misure graduali. Come ha rilevato Sartori, lo sfascio e la deflagrazione diventano prospettive concrete. Sono indispensabili incisive riforme strutturali che restituiscano al sistema sostenibilità e competitività. Ma se gli individui non riescono a recuperare pazienza, buon senso, autocontrollo e responsabilità tutto può essere perduto. 

giovedì 15 novembre 2012

Egemonia culturale e mutamento politico.


Il tentativo di influire sul corso della storia conseguendo l'egemonia culturale non rappresenta certo una novità. Nella Francia del Diciottesimo secolo la battaglia culturale e l'offensiva filosofica condotte dai philosophes e dai club prepararono la Rivoluzione:

"...se l'inizio e le modalità della Rivoluzione molto devono alle circostanze, ossia all'accidentale, mai peraltro un movimento di idee di tale ampiezza e così perfettamente convergenti ha voluto e preparato trasformazioni politiche e sociali come quelle del 1789" (Francois FURET e Denis RICHET, La Rivoluzione francese, 1998, tomo primo, p. 63).




Due secoli dopo il movimento comunista internazionale, guidato dai Sovietici, organizzò un'imponente macchina propagandistica diretta ad influenzare l'opinione pubblica occidentale. Il principale artefice di questa operazione fu Willi Munzenberg:

"Willi era l'eminenza grigia e l'organizzatore invisibile della crociata mondiale antifascista. Era fuggito dalla Germania la notte dell'incendio, aveva stabilito il suo quartier generale a Parigi e iniziato la sua campagna, un evento unico nella storia della propaganda.
Per prima cosa, fondò il "comitato mondiale di soccorso per le vittime del fascismo tedesco", con sezioni in tutta l'Europa e l'America. Veniva presentato come un'organizzazione umanitaria, e aveva in ogni paese una commissione di persone altamente rispettabili, da duchesse inglesi a opinionisti americani e eruditi francesi, che non avevano mai sentito il nome di Munzenberg e pensavano che il Comintern fosse uno spauracchio inventato dal dottor Goebbels.
Questo comitato mondiale, con la sua galassia di celebrità internazionali, divenne il fulcro della crociata. Ci si prendeva grande cura che nessun comunista - a parte pochi nomi di fama internazionale...- fosse pubblicamente collegato con il comitato. Ma il segretariato parigino che gestiva il comitato era un gruppo puramente comunista, capeggiato da Munzenberg, e controllato dal Comintern" (Arthur KOESTLER, La scrittura invisibile, 1991, pp. 227 e 228).
Durante la Guerra fredda i governi delle grandi democrazie occidentali cercarono di ottenere un maggior consenso tra gli intellettuali e favorirono la diffusione delle idee di libertà. Un tentativo in questa direzione, ad altissimo livello, può essere considerata la Mont Pelerin Society, fondata da Hayek, di cui furono membri intellettuali eminenti come Karl Popper e il secondo presidente della Repubblica italiana Luigi Einaudi.
In questa gigantesca competizione per la supremazia culturale ed ideologica prevalse largamente la sinistra. Prese atto della sconfitta lo stesso Popper che il 31 maggio 1970 in una lettera "confidenziale" a Lord Coleraine scrisse:

"Per motivi a me del tutto ignoti, la propaganda di sinistra ha ottenuto una vittoria in quasi tutti i Paesi occidentali che può essere definita solo come completa. Sembra che essi si siano accaparrato il monopolio nel controllo di tutti i "mass-media" (la loro orribile terminologia). Come ciò possa essere accaduto non so... Il vero problema è che nessuno sembra essersi reso conto di ciò che è accaduto: quale tipo di vittoria sia stata conseguita dalla sinistra; neppure gli stessi vincitori ritengono, o si rendono conto, che, per quanto riguarda i mezzi di propaganda, essi sono già diventati la "Classe dirigente"" (Karl POPPER, Dopo La società aperta, 2009, p. 386).

Uscito di scena l'imponente movimento diretto dai Sovietici, certi metodi e inclinazioni rivivono in una vasta e disomogenea area liberal, radicale e antagonista, che oggi trova nella rete spazi e strumenti fino a pochi decenni fa inimmaginabili. Anche nelle migliori componenti di tale area si coglie qualcosa della vecchia e inossidabile aspirazione all'egemonia, perseguita con metodo.

Paolo Mastrolilli su La Stampa del 13 novembre 2012 ha scritto:

"Il giornalismo ha un futuro? Sempre di più, secondo il principale consigliere del presidente Obama, David Axelrod. Lui, infatti, da ora in poi si dedicherà alla formazione di candidati, manager delle campagne elettorali, e giovani giornalisti, determinati a dare il loro contributo alla società occupandosi di politica".

"La dichiarazione di Axelrod, però, ha già acceso una polemica politica. Se è vero che il giornalismo di qualità resta essenziale, cosa ci fa un partigiano come lui ad insegnarlo? Per essere buona, l’informazione non dovrebbe essere oggettiva, obiettiva e neutrale per definizione? O forse l’ex cervello di Obama ha in mente la creazione di una scuola per il giornalismo di parte, finalizzato a fare propaganda per una certa categoria di idee? E’ un problema che preoccupa soprattutto i conservatori, che da decenni denunciano il “bias” favorevole alla sinistra dei media americani".

E' impossibile separare l'informazione dall'educazione, i fatti dalle opinioni, ma si deve considerare la verità come corrispondenza ai fatti un obiettivo da perseguire e da trasmettere alle nuove generazioni. Così Karl Popper, anche in una nota intervista televisiva.  Bisogna inoltre sottolineare l'asimmetricità dell'efficacia di questi  tentativi coordinati di sedurre i cuori e le menti. Essi possono validamente preparare la fine delle tradizioni e degli assetti osteggiati, ma quasi mai l'esito corrisponde alle speranze. A Voltaire e Rousseau seguì Napoleone, l'Unione Sovietica si sciolse, dopo il Sessantotto vennero Ronald Reagan e Margaret Thatcher.
Restano idee alla deriva nella storia, pronte per una nuova utilizzazione, slegate dall'intenzione di chi li ha prodotte. Le austere cattedrali romaniche della Valle Padana sono state costruite anche con i marmi tratti dalle città romane cadute in rovina. Una colonna trovata tra i ruderi di un anfiteatro può ora sostenere la copertura di una chiesa cristiana. Analogamente in molti nostri sogni e aspettative troviamo oggi elementi diffusi con metodica passione parecchi anni fa.


giovedì 8 novembre 2012

Obama o Merkel?


Gli elettori americani hanno scelto la continuità, conferendo a Obama un secondo mandato. Una decisione importante non solo per gli Stati Uniti. Gianni Riotta su La Stampa del 7 novembre 2012 ha scritto:
"La divisione profonda che il nuovo Presidente dovrà affrontare non è colpa dei media, vecchi o nuovi che siano. Scaturisce da interessi diversi, culture opposte, desideri inconciliabili. I repubblicani che mandano i figli a scuola privata, si curano con assicurazioni sanitarie private, vivono in «gated community» dove si entra solo mostrando i documenti e pagano la propria pensione autonoma, trovano ingiusto pagare le tasse,  perché non hanno più dallo Stato servizi sociali comuni. I democratici che vivono di questi servizi, dalla scuola alla sanità alla pensione, temono ogni taglio alla spesa. L’esercito professionale è raro ponte tra le due comunità, i repubblicani presenti con le famiglie tradizionali del Sud, i democratici con i figli delle minoranze povere e urbane. 
Le due coalizioni che si sono scontrate ieri non potrebbero essere più diverse, con Romney maschi bianchi sia ricchi che lavoratori, il ceto medio, Wall Street, l’America rurale, le piccole e medie imprese; con Obama le metropoli delle due coste, i tecnocrati del digitale, le minoranze dagli afroamericani agli ispanici, gli intellettuali e Hollywood, gli operai salvati dal piano auto, i sindacati di scuola e fabbrica. In mezzo le comunità incerte, cattolici, asiatici, anziani e pensionati, professionisti".

Come ben sottolinea Riotta determinanti si sono rivelati non solo gli "interessi diversi" ma anche le "culture opposte" e i "desideri inconciliabili".

Alberto Alesina, sul Corriere della Sera  dell'8 novembre 2012, ha scritto:
"Ed ecco, appunto, la terza strada di Obama: combinare i suoi legittimi desideri di uno Stato sociale relativamente generoso con la stabilità dei conti. Come farlo? Non facile, ma la ricetta è nota.
Concentrare la spesa sociale sui veri deboli e non con aiuti a pioggia; riformare la bomba a orologeria di Medicare; aggredire e non posporre il problema dei sistemi pensionistici pubblici disastrati; semplificare infine un sistema fiscale bizantino eliminando detrazioni e sgravi a questo o quel settore solo perché particolarmente ben rappresentato da qualche lobby.

Lo spazio c'è, come sostenevano gli economisti di Romney. Come europei, ciò di cui abbiamo bisogno non è di un'America che segua politiche che, nel tentativo di far salire di qualche frazione di punto la crescita per un paio d'anni, compromettano ancor di più la sua solidità fiscale. E per di più inondando il mondo di titoli di Stato Usa, per il momento ancora appetibili, ma non si sa per quanto. Abbiamo bisogno invece di un'America prudente, che guidi il mondo occidentale verso un'uscita dai postumi della crisi con politiche lungimiranti, che non spostino sulle generazioni future un costo fiscale esorbitante. Non vogliamo più un'America spendacciona che si fa finanziare dall'estero".




Romney ha perso non solo perchè sono ormai tanti i cittadini USA che hanno bisogno del sostegno pubblico, ma soprattutto perchè molti non dipendenti da tale sostegno, mossi da cultura e desideri, rifiutano di lasciare agli individui la responsabilità del proprio futuro personale

Dirigenti, intellettuali, insegnanti capaci, artisti, giovani non indigenti con una buona formazione scolastica, professionisti urbani, nuovi imprenditori della I. T., cittadini di origine latino-americana dotati di spirito di iniziativa, potevano scegliere tra un progetto di rilancio del paese imperniato su un welfare produttivistico e sostenibile, una pubblica amministrazione meno ampia e invadente, una ridotta pressione fiscale, un assetto giuridico che favorisca gli investimenti privati, e i velleitari, controproducenti e costosi programmi riproposti da Obama.
Questa volta lo hanno sostenuto. Ma non si tratta di un orientamento irreversibile.
Proprio questo settore della società americana fa la differenza. Ad esso deve essere indirizzato lo sforzo di chi vuole evitare il declino. Ancora una volta si rivelano decisive la battaglia culturale e l'attenzione per i giovani. Chi si rivolge ad essi nel modo sbagliato resta deluso.


Un'alternativa in sostanza analoga si presenta in Europa, anche se populismo e demagogia caratterizzano ormai pure importanti settori della destra. Qui l'alternativa alle costose illusioni di chi spera in una crescita finanziata con il prelievo fiscale e l'indebitamento pubblico è rappresentata dalla visione più volte delineata dalla cancelliera tedesca Merkel:

" L’Europa ha bisogno di più crescita e più occupazione: anche in futuro deve potersi affermare nella concorrenza mondiale. Io voglio che l’Europa, anche fra venti anni, sia apprezzata per il suo potenziale innovativo e per i suoi prodotti. Si tratta di come noi riusciremo ad affermarci in futuro nell’era della globalizzazione, e quindi a garantire anche in futuro il nostro benessere".

"Gli investitori di lungo periodo, che investono il denaro di tanta gente, vogliono sapere quale sarà la condizione dell’Europa fra venti anni. La Germania, con le sue trasformazioni demografiche, sarà ancora competitiva? Saremo aperti alle innovazioni?"

Quello auspicato da Merkel è uno sviluppo fondato sugli incrementi di produttività, su qualità e innovazione di prodotto, welfare sostenibile,  pressione fiscale contenuta, spesa pubblica sotto controllo,  pubblica amministrazione efficiente, scuola attenta alle esigenze del mercato del lavoro. La scelta è tra questo programma e le illusioni spacciate da quanti si rifiutano di richiamare alle proprie responsabilità chi non ha davvero bisogno del sostegno pubblico. Si tratta di politici, intellettuali e sindacalisti in cerca di un facile successo, a spese del paese, dei giovani, delle future generazioni.

giovedì 1 novembre 2012

Liberali e cattolici contro il nazionalismo.



Negli ultimi due secoli l'esaltazione dell'idea di nazione e della nazione, la miope difesa dei suoi pretesi interessi e l'applicazione del principio di autodeterminazione hanno prodotto conseguenze perverse. I liberali e i cattolici intendono tutelare la libertà degli individui, della famiglia e delle altre formazioni sociali. Attribuiscono pari dignità a tutti gli uomini e devono avversare ogni forma di nazionalismo.

Nel Tradimento dei chierici, libro più citato che letto, Julien Benda osservò che:

"Questa esaltazione del particolarismo nazionale, così imprevista in tutti i chierici, lo è ancor di più in quelli che ho chiamato i chierici per eccellenza: gli uomini di Chiesa. Colpisce in modo particolare vedere come, coloro che per secoli hanno esortato gli uomini, almeno teoricamente, a mortificare il senso delle loro differenze per cogliersi nella divina essenza che li riunisce tutti, si mettono a lodarli, a seconda del luogo del sermone, per la loro "fedeltà all'anima francese", per l'"inalterabilità della loro coscienza tedesca", per il "fervore del loro cuore italiano""(ed. 2012., pp. 129 e 130).

E Karl Popper, ne La società aperta e i sui nemici, sostenne

"Il completo ripudio del principio dello stato nazionale (un principio che deve la sua popolarità esclusivamente al fatto che si rivolge agli istinti tribali e che è il meno costoso e più sicuro metodo con cui può affermarsi un politico che non abbia niente di meglio da offrire) e il riconoscimento della demarcazione necessariamente convenzionale di tutti gli stati, insieme con la convinzione che gli individui umani e non gli stati o le nazioni devono costituire la preoccupazione ultima anche delle organizzazioni internazionali..." (nota 7/1 al Capitolo nono).

Lo stesso Popper in Congetture e confutazioni scrisse:

"L'assoluta assurdità del principio dell'autodeterminazione nazionale dev'essere palese a chiunque si sforzi anche solo per un momento di criticarlo. Tale principio equivale all' esigenza che ogni stato sia uno stato nazionale; che sia limitato da un confine naturale, e che questo coincida con la naturale dimora di un gruppo etnico; sicchè dovrebbe essere il gruppo etnico, la "nazione", a determinare e a proteggere i confini naturali dello stato. Ma degli stati nazionali di questa specie non esistono".

"Gli stati nazionali non esistono, semplicemente, perchè non esistono le cosiddette "nazioni" o "popoli", sognati dai nazionalisti. Non si trovano se non assai raramente dei gruppi etnici omogenei che siano vissuti a lungo in paesi dai confini naturali. I gruppi etnici e linguistici (i dialetti corrispondono spesso a barriere linguistiche) sono strettamente mescolati ovunque".

"Ovunque esistono delle minoranze etniche. Il giusto proposito non dev'essere quello di "liberarle" tutte, ma piuttosto di proteggerle tutte". ( ed. 2000, pp. 623 e 624).

Assistiamo a un tentativo di ristrutturazione degli schieramenti politici italiani, di rinnovamento della proposta politica. Pare utile fissare, anche ruvidamente, alcuni principi. E' infatti vivissimo il rischio che prevalgano la demagogia, le concessioni agli istinti tribali e i particolarismi. Occorre comprendere che la tutela della libertà individuale, del mercato e della concorrenza, dei più svantaggiati può essere conseguita solo superando il feticcio della sovranità nazionale. Il confronto è oggi globale. L'Unione europea e la comunità euro-atlantica offrono il quadro e gli strumenti necessari per difendere tradizioni, regole fondamentali e istituzioni che hanno a lungo consentito una larga diffusione del benessere nella libertà.
E' buona cosa amare il proprio paese, rispettando negli altri il medesimo sentimento. Ma le ossessioni identitarie rappresentano ostacoli che precludono il ricorso a misure efficaci. Politici ed intellettuali devono evitare di incrementarle e vellicarle. Il facile consenso che può seguire non dà mai buoni frutti.






giovedì 25 ottobre 2012

Giuseppe Bottai. Dal Regime alla Legione.





Giuseppe Bottai nacque a Roma nel 1895 in una famiglia di commercianti. Ricevette un'educazione di stampo risorgimentale mazziniano. Dopo il liceo si laureò in giurisprudenza.
Nel 1915 si arruolò vontario. Combattè sul Carso e sul Grappa, entrando poi nel corpo degli arditi. Come molti altri giovani della sua generazione l'esperienza della Grande Guerra lo segnò profondamente, esaltando alcuni tratti della sua personalità. "La guerra è per lui desiderio di misurarsi, combattere e vincere, una volontà di fare che trovi attuazione immediata, tangibile" (Giordano Bruno GUERRI, Introduzione a Giuseppe BOTTAI, Diario 1935 - 1944, 1994, pag. 8).
Dopo la guerra Bottai aderì al Fascismo. "Il combattimento e il comando gli hanno confermato il gusto per l'azione e la capacità del comando, la sua voglia di "fare"... nessuno, fra i grandi gerarchi - tranne, al polo opposto, Starace - subì così fortemente il fascino di Mussolini" (G. B. GUERRI, op. cit., pag. 9). Nel 1921 fu eletto deputato per il Partito Nazionale Fascista. L'anno successivo partecipò alla Marcia su Roma. Fautore della "socializzazione della libertà", della nazionalizzazione delle masse, del partito unico e di una dittatura oligarchica, per le sue doti intellettuali, la sua capacità di lavoro e l'integrità morale rappresentò a lungo un fiore all'occhiello del regime mussoliniano, assumendo l'incarico di ministro delle Corporazioni e poi dell'Educazione nazionale. Le sue riviste Critica Fascista e Primato ospitarono molti giovani intellettuali ed artisti, consentendo l'esercizio di una prudente critica al regime.
Avversò l'alleanza con la Germania e l'entrata dell'Italia nella Seconda guerra mondiale, pur non opponendosi alle "Leggi razziali", da lui applicate come ministro dell'Educazione. Con Grandi e Ciano redasse l'ordine del giorno votato dal Gran Consiglio del Fascismo a seguito del quale Mussolini cadde il 25 luglio 1943.
Scrive Bottai nel suo Diario:

"24 LUGLIO 1943 - Giornata attesa con drammatica commozione. A un bivio. Il nostro dovere ci ha messo a un bivio, tra Paese e Partito, tra Italia e Regime, tra Re e Capo. Tanto duro lavoro per unire, cementare, fondere, fare di due uno nella coscienza una; e, oggi, questo essere a un bivio, e un decidere che separa, dentro, che torce, che dilania. Ma è il dovere" (G. BOTTAI, op. cit., pag. 404).

Dopo la caduta di Mussolini si nascose in un convento fino all'ingresso a Roma degli Alleati. Nel 1944 si arruolò nella Legione straniera francese. Combattè contro i tedeschi in Francia e Germania. Dopo la guerra fu trasferito in Nord Africa. Rientrò in Italia nel 1948. Non riprese la politica attiva ma vagheggiò "un incontro tra sinistra, forze cattoliche e "buoni" conservatori" (G. B. GUERRI, op. cit, pag. 18).
Giuseppe Bottai morì a Roma, colpito dal morbo di Parkinson, nel 1959.

In Italia, dalla sua unificazione, nessun importante movimento politico si è definito conservative, conservatore. E con ragione. Cosa si doveva e si deve conservare? Il paese ha raggiunto tardi e male l'unità, è stato retto per un ventennio dal regime mussoliniano, ha ospitato il più grande e astuto partito comunista occidentale, ha conosciuto una democrazia parlamentare bloccata ed inefficiente fino allo scioglimento dell'Unione Sovietica, è oggi afflitto da una profonda crisi non solo economica ma anche politico-istituzionale e morale. Di cosa dunque possiamo vantarci?
Giuseppe Bottai fu onesto, colto e  coraggioso, ben più di molti altri italiani. Ma con i suoi errori e i suoi difetti rappresenta bene un paese che anche  con la sua parte migliore non riesce a risolvere i propri problemi e le proprie contraddizioni. Quello che rimane irrisolto è prima di tutto il nostro rapporto con la modernità, mai davvero accolta in profondità, nel modo giusto, con strumenti culturali ed istituzionali adeguati.
L'Italia di oggi, coi suoi vizi strutturali, è chiamata a reggere la globalizzazione, a fronteggiare una competizione globale. Solo riflettendo coraggiosamente sulla propria diversità può migliorare prospettive che paiono inquietanti.


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