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giovedì 5 luglio 2012

Storia politica dell'Italia unita. Il grande assente.





In Storia delle idee del secolo XIX (Freedom and Organization), 1968, p. 651 Bertrand Russell ha rilevato che:

"Sfortunatamente nei tre Imperi orientali la difesa della religione e della proprietà si trovò legata alla difesa dell'autocrazia, con la conseguenza che i capitalisti, anche quelli che sarebbero stati rovinati dalla guerra, si trovarono costretti a dare l'appoggio ai campioni di una diplomazia avventurosa, e i veri cristiani dovettero appoggiare il militarismo a fine di impedire la spoliazione di quelli che insegnavano la dottrina di Cristo".



Qui Russell, in un contesto ormai lontano, intuisce un'esigenza profonda  che ha caratterizzato i sistemi politici dell'Europa continentale non solo fino alla Prima guerra mondiale ma per tutto il Ventesimo secolo. In questi condizione di un progresso civile ed economico solido e vitale è stata la presenza di forti movimenti politici insieme genuinamente liberali, sinceramente democratici e non ostili alla religione, in particolare al Cattolicesimo.

Il genuino sostegno a mercato, proprietà privata e libertà individuali, la sincera fiducia nella democrazia, l'apertura al dispiegarsi del fenomeno religioso, anche in una dimensione pubblica, evitando la trappola del confessionalismo, quando sono riusciti insieme a radicarsi nell'opinione pubblica e a segnare ampi schieramenti politici hanno conferito all'intero sistema efficienza e stabilità.




Nella storia dell'Italia unita eminenti statisti come Giovanni Giolitti, Luigi Einaudi e Alcide De Gasperi, liberali e cattolici o cattolici liberali,  hanno fornito a questa esigenza di sistema una risposta, sia pure significativa, soltanto provvisoria, senza imprimere al sistema stesso svolte durature
. Occorre indagare le ragioni di questo fallimento, nel contempo riflettendo sull'Italia contemporanea, sulla sua società segnata da processi di fusione e destrutturazione, a tal punto cambiata da porre in dubbio l'utilità di percorrere strade già battute altrove con successo.
L'intuizione di Russell conserva ancora validità? Fornisce una chiave di lettura ed una prospettiva per un presente liquido, sfuggente, apparentemente non accoglibile sotto vecchie categorie? Probabilmente no. Ma occorre fare un tentativo, un serio sforzo di aggiornare il grande progetto che i migliori liberali italiani non sono riusciti a realizzare. Impareremo comunque dai nostri errori.

venerdì 29 giugno 2012

Bertrand Russell e la politica estera britannica.

La regina Vittoria




Bertrand Russell, nato nel 1872 e morto nel 1970 apparteneva a una delle più illustri famiglie dell'aristocrazia britannica whig. Orfano di entrambi i genitori già a quattro anni, fu affidato ai nonni paterni.
Il nonno Lord John Russell fu un eminente statista, due volte primo ministro e tra i principali artefici della politica estera britannica del Diciannovesimo secolo. Nella casa dei nonni paterni, ma anche frequentando la nonna materna, il giovanissimo Bertrand respirò la grande politica dell'epoca vittoriana, acquisendone una conoscenza viva e diretta.
Anche per questi contatti precocissimi il pensiero del grande filosofo sui temi della politica estera fu per lungo tempo lucido ed originale. Particolarmente interessanti le sue considerazioni contenute in Freedom and Organization (Storia delle idee del secolo XIX). Qui si trovano cenni dello sviluppo delle relazioni internazionali, lasciate alla determinante influenza dei sovrani e dei funzionari permanenti, anche in presenza di parlamenti titolari di ampie prerogative costituzionali:

"Nonostante che dopo il 1814 il mondo si fosse trasformato, rimase un aspetto nel quale non aveva subito mutamenti importanti, e tali mutamenti, se vi erano stati, erano stati piuttosto un regresso.
Le relazioni tra le grandi Potenze erano ancora, come ai tempi del congresso di Vienna, nelle mani di singoli individui, il cui potere poteva essere sottoposto a limitazioni teoriche, ma che in pratica era pressoché dispotico. Pur con la istituzione di parlamenti nei tre Imperi orientali, le loro relazioni estere erano ancora controllate dai sovrani altrettanto completamente che ai tempi di Alessandro I e di Metternich. In Inghilterra, le tradizioni di continuità nella politica estera sottraevano tali relazioni con l'estero all'effettivo controllo del Parlamento; qualunque fosse il partito al governo, il ministero degli Esteri era nelle mani delle stesse famiglie whig, venute al potere nel 1830. In Francia, il ministero degli Esteri era meno assoluto che altrove in Europa; ma un'alleanza tra i funzionari permanenti e certi interessi del mondo degli affari conducevano a risultati assai simili a quelli prodotti altrove dall'autocrazia.
Mentre così le relazioni tra gli Stati non si erano affatto modernizzate, ne era smisuratamente aumentato il potere offensivo. La scienza e l'industrialismo avevano trasformato l' arte della guerra..."  (op. cit., 1968, pp. 622 e 623).

"Tutti questi uomini non erano pure  personificazioni di forze impersonali, ma, attraverso le loro idiosincrasie personali, influirono sugli eventi" (p. 625).

" La politica estera era trattata dovunque come un mistero, che sarebbe stato contrario agli interessi nazionali esporre apertamente agli occhi del profano" (p. 624).

Tale assetto restò sostanzialmente immutato fino alla Prima guerra mondiale e contribuisce a spiegare anche l'entrata in guerra dell'Italia, contro la volontà della maggioranza parlamentare neutralista guidata da Giovanni Giolitti, che nelle sue Memorie scrive:

"Ora io ricordo in proposito che quando la Germania dichiarò guerra alla Francia, Asquith, dopo aver convocato il Consiglio dei ministri, chiamò l'ambasciatore francese e gli disse presso a poco: "Il governo inglese ha deciso di intervenire a fianco della Francia nella guerra; ma mentre credo di dovervi comunicare subito questa decisione, vi ricordo che essa non diventa effettiva che dopo l'approvazione del Parlamento." La Costituzione nostra è in ciò simile a quella inglese; in quanto in entrambe la decisione della guerra spetta alla Corona; ma la decisione non avrebbe seguito senza l'approvazione delle necessarie spese, che spetta al Parlamento".( Giovanni GIOLITTI, Memorie della mia vita, 1982, pp. 331 e 332).

L'opposizione del Parlamento italiano agli accordi segreti stretti dal Re avrebbe aperto  un gravissimo conflitto costituzionale e una drammatica crisi dinastica. Così anche il nostro paese prese parte all'"inutile strage".
                                                                                             

giovedì 21 giugno 2012

Magna Graecia




Da un editoriale di Angelo Panebianco sul Corriere della Sera:

"...se l'euro crollasse, anche a voler prescindere dalle conseguenze economiche di un simile evento (per l'economia mondiale e quindi anche per noi), i contraccolpi politici sarebbero assai violenti per il nostro Paese. La ragione è che verrebbe meno quel famoso «vincolo esterno» in assenza del quale in Italia potrebbero correre forti rischi sia la democrazia politica che la stessa integrità dello Stato nazionale". "E l'Italia si ritroverebbe nelle condizioni di una zattera alla deriva nel Mediterraneo". "Immediati costi economici a parte, la fine dell'euro, trascinando nella rovina anche l'Unione, ci lascerebbe soli alle prese con tutti i nostri fantasmi".


E Carlo Bastasin su Il Sole 24 Ore: 

"Fin dal prossimo cruciale vertice europeo, il tema dell'integrazione politica europea infatti diventerà centrale nella soluzione dell'eurocrisi e per la stessa ragione dovrebbe diventare subito il perno anche del dibattito politico italiano".
"Una delle domande che condizionano la fiducia dell'eurozona è proprio chi governerà nel 2013 l'Italia, il Paese con il debito pubblico più pericoloso".
"Come ha dimostrato la tensione creata dal voto greco, la questione dell'affidabilità politica dei singoli Paesi resterà centrale fino al compimento dell'unione politica, cioè per molti anni. I risparmiatori o gli investitori che oggi hanno paura dell'euro sanno che fino ad allora il "pubblico" - a cui fa riferimento il "debito pubblico" che acquistano - continua ad essere composto di cittadini che tuttora possono scegliere democraticamente prima di tutto in un ambito nazionale. Per l'Italia sarebbe indispensabile consolidare adesso al proprio interno il consenso per il progetto europeo".

La Gran Bretagna, forse, grazie al rapporto speciale con gli Stati Uniti e alla qualità delle sue tradizioni e istituzioni, può permettersi di non considerare l'integrazione politico - economica europea una prospettiva vitale. Ma per l'Italia l'integrazione politica e la moneta unica europee sembrano davvero irrinunciabili, anche per le ragioni sopra lucidamente esposte dal professor Panebianco.
Occorre inoltre comprendere che per gli investitori internazionali il rischio politico nazionale rappresenta un parametro fondamentale. L'inaffidabilità politica dell'Italia pesa molto sul giudizio di chi è chiamato ad acquistare i titoli del nostro debito pubblico e ad investire nelle imprese italiane.
Allora perchè non pochi politici italiani continuano a vagheggiare il ritorno alla vecchia lira e a pronunciare dichiarazioni euroscettiche o antieuropeiste? Qualche volta si tratta di convinzioni sbagliate, ma profonde e rispettabili. Più spesso prevale il desiderio di compiacere una parte importante dell'opinione pubblica. E' difficile interrompere il circolo vizioso, prevenire il cortocircuito, ma se non si forma un adeguato consenso sulle riforme strutturali necessarie e sull'integrazione europea il paese rischia di andare alla deriva, di essere fiaccato definitivamente da convulsioni "greche", assumendo i tratti di una grande Grecia, diventando per l'economia  globale sempre più non un problema, ma il problema.

martedì 12 giugno 2012

Riforme. Evitare la balcanizzazione.



http://i.res.24o.it/images2010/SoleOnLine5/_Immagini/Notizie/Italia/2011/05/italia-fotolia-258.jpg?uuid=94a3b72c-850e-11e0-bf94-90c651e9f06e


Sulla Stampa Marcello Sorgi ha scritto:

"Con una simultaneità mai vista prima, dai vertici di Pd e Pdl sono uscite due proposte simmetriche e contrapposte: primarie e liste civiche".
"...sarà dato pieno riconoscimento alle liste che, pur non riconoscendosi negli stessi partiti, ritengono di concorrere nei due campi aggregandosi alle rispettive coalizioni".
"Apparentemente, sembra un espediente abbastanza logico, mirato dichiaratamente a ottimizzare la raccolta dei consensi, in un’elezione in cui più forti s’annunciano le contestazioni e la forza d’urto dei movimenti dell’antipolitica, usciti vincitori dalla recente tornata di amministrative. Ma di fatto, è inutile nasconderlo, c’è un’evidente contraddizione tra primarie e liste civiche. Le prime, infatti, puntano a unire gli elettori di un campo e a contrapporli a quelli del campo opposto. Le seconde, al contrario, nascono per dividere o comunque per segnare delle differenze".
" Ciò che finora non era stato provato, e invece lo sarà la prossima volta, è cosa possa accadere spostando le liste civiche, dalle contese cittadine e strapaesane, a quella nazionale per il governo".
"Si può solo provare ad immaginare le conseguenze".
"Ma la conseguenza comune e più diretta... sarà che chiunque vinca si ritroverà alle prese con i problemi già emersi in passato di divisioni interne e scarsa governabilità, moltiplicati per il numero di radici locali delle numerose liste civiche che, in nome della nuova dottrina annunciata ieri, saranno associate al centrosinistra e al centrodestra".
"Per questo, prima di aprire la strada a un’evoluzione così pericolosa della nostra già claudicante democrazia, occorrerebbe pensarci bene. Basterebbe riformare seriamente la legge elettorale, per evitarlo. Invece, al posto di rinnovarsi davvero, per gareggiare con i nuovi movimenti, nati e prosperati sulla loro crisi, i due maggiori partiti si preparano a legittimare tutto il «nuovo» (e spesso anche quello autodefinitosi tale) che non riescono a portare al loro interno e tutta la monnezza che non possono trattenere, a rischio di intossicazione, ma che temono, una volta espulsa, faccia perdere voti".

L'attribuzione di un ruolo nazionale alle cosiddette liste civiche non apre nuovi spazi alle associazioni, ai comitati, ai corpi intermedi  tanto cari a Tocqueville e a Roepke, dove il cittadino apprende la libertà e il suo esercizio responsabile, trovando il proprio posto in una rete di appartenenze che dà senso alle opzioni.
Tale attribuzione concorre piuttosto alla disgregazione del paese, premiando il particolarismo, le spinte corporative, l'approccio demagogico. La prospettiva di una balcanizzazione della nostra democrazia inquieta gli investitori internazionali, che considerano il rischio politico un parametro fondamentale.
L'Italia ha bisogno di riforme strutturali che circoscrivano le dimensioni e i costi della pubblica amministrazione, ridefiniscano la struttura e gli obiettivi del welfare, diminuiscano la pressione fiscale, aumentando l'efficienza e la competitività dell'intero sistema. Non esistono scorciatoie. Solo così si esce dalla crisi che ci attanaglia.
La riforma elettorale e della forma di governo deve tendere a riconciliare i cittadini e le istituzioni della democrazia rappresentativa e a consentire che le preoccupazioni degli elettori si traducano in una pressione costruttiva e positiva. Occorre evitare con ferma attenzione la polverizzazione della rappresentanza politica e il suo asservimento alle peggiori pulsioni.



lunedì 4 giugno 2012

La memoria delle generazioni.

                                                                                                        www.cinetivu.com
Sul Corriere della Sera il professor Angelo Panebianco con l'abituale lucidità ha scritto:

"Se cerchiamo le cause profonde della crisi dell'Europa, possiamo forse identificarne una più generale e una più specifica. La più generale consiste nel «ciclo generazionale». La più specifica nell'incapacità delle élite europeiste di fare i conti con le credenze del common man, dell'uomo comune europeo.
                                                                 
 Per ciclo generazionale si intende una regolarità tante volte all'opera nella storia. A una fase di grandi disordini (guerre interstatali e civili) segue una lunga fase di pace e ordine. Coloro che hanno vissuto l'età del disordine e ricordano le morti violente e il senso di costante insicurezza, coloro che sentono ancora, se chiudono gli occhi, l'odore della paura per la sopravvivenza propria e dei propri cari, si adoperano perché quei tempi non tornino più. Ne seguiranno sforzi individuali e collettivi tesi ad assicurare una forma di «pace perpetua» (dentro le società e fra le società affini), un ordine che si spera di costruire su basi solide. I figli di coloro che hanno vissuto nell'età del disordine ne continuano l'opera. Non hanno conosciuto direttamente quella età (o erano troppo piccoli per averne un ricordo distinto) ma sono stati influenzati dai racconti dei genitori. Da quei racconti hanno appreso che l'ordine societario è una fragile cosa, che l'età del disordine potrebbe tornare spezzando di nuovo vite e progetti di vita, sogni e desideri. L'ordine si mantiene grazie allo sforzo della nuova generazione. Possono anche insorgere, qua o là, minoranze violente (terrorismo) ma verranno sconfitte. I padri sono ancora lì a ricordare a tutti l'esperienza vissuta nell'età del disordine.

Poi, a poco a poco, scompaiono tutti quelli che hanno avuto esperienza diretta di quei tragici tempi. Per i loro nipoti non c'è ormai differenza fra le guerre puniche e il nazismo o la Seconda guerra mondiale. Cose che appartengono a epoche lontane, che si studiano a scuola, irrilevanti per la loro personale esperienza. Le inibizioni che hanno condizionato le generazioni precedenti si dissolvono. Non c'è più memoria dell'antica barbarie. Il rischio di una nuova età del disordine diventa elevato".

La perdita di memoria generazionale ha un rilievo generale ed è ben nota anche al Magistero della Chiesa cattolica. Benedetto XVI, nella sua Lettera enciclica SPE SALVI, 24, ha insegnato che:

"Innanzitutto dobbiamo costatare che un progresso addizionabile è possibile solo in campo materiale. Qui, nella conoscenza crescente delle strutture della materia e in corrispondenza alle invenzioni sempre più avanzate, si dà chiaramente una continuità del progresso verso una padronanza sempre più grande della natura. Nell'ambito invece della consapevolezza etica e della decisione morale non c'è una simile possibilità di addizione per il semplice motivo che la libertà dell'uomo è sempre nuova e deve sempre nuovamente prendere le sue decisioni. Non sono mai semplicemente già prese per noi da altri – in tal caso, infatti, non saremmo più liberi. La libertà presuppone che nelle decisioni fondamentali ogni uomo, ogni generazione sia un nuovo inizio. Certamente, le nuove generazioni possono costruire sulle conoscenze e sulle esperienze di coloro che le hanno precedute, come possono attingere al tesoro morale dell'intera umanità. Ma possono anche rifiutarlo, perché esso non può avere la stessa evidenza delle invenzioni materiali".

Tale perdita di memoria si estende a situazioni e principi fondamentali dell'economia. Mentre talune generazioni sanno che non esistono pasti gratis, che per ogni pasto c'è sempre chi paga il conto, altre non acquistano consapevolezza dei necessari fattori di uno sviluppo economico durevole, vitale e benefico per molti.
Così, nella vita democratica, l'addestramento ad una libertà responsabile e la capacità, richiesta agli elettori, di manutenere adeguatamente le istituzioni rappresentative sono difficili da acquisire ed ancor più da trasmettere alle generazioni successive, essendo largamente dipendenti dall'esperienza.
Meno condivisibile pare la mancanza di fiducia nella scuola manifestata da Panebianco. Essa non riesce a contribuire alla formazione di cittadini liberi, responsabili, produttori di ricchezza diffusa, perchè contenuti e metodi educativi sono fuorvianti ed inefficaci. Senza metodi selettivi e premio del merito, senza programmi realistici e commisurati alle esigenze del lavoro e dell'impresa, senza esercizio concreto della libertà responsabile, gli obiettivi indicati restano irraggiungibili.
Anche il ruolo degli intellettuali non deve essere trascurato. La diretta o indiretta esperienza generazionale, nei termini esposti da Panebianco, è importantissima. Ma storici, giornalisti, protagonisti del dibattito pubblico che influenzano l'opinione pubblica, hanno precise responsabilità. Essi possono fornire modelli e narrazioni entro certi limiti idonei a surrogare tale esperienza, a circoscrivere i danni prodotti dalla sua mancanza. Assistiamo invece al frequente "tradimento dei chierici", sempre meno attratti dalla verità e dal suo servizio.

martedì 29 maggio 2012

Crisi. Cercare le cause per trovare le soluzioni.




Questo è il trailer di Margin Call, un film americano proprio in questi giorni nelle sale italiane.  Protagonisti, ancora una volta, banchieri senza scrupoli che per avidità ed incompetenza innescano una crisi devastante. Con opere analoghe forma ormai un vero e proprio sottogenere cinematografico, pur distinguendosi per il coinvolgente realismo e l'assenza del sovraccarico etico didascalico che caratterizza altri prodotti.
La prima fase della crisi, finanziaria, ha colpito duramente gli Stati Uniti. Qui l'attenzione dell'opinione pubblica si è subito concentrata sull'alta finanza e sulle banche. Nell'Eurozona il debito pubblico è imponente, la crescita economica insufficiente. La crisi si è estesa alle finanze pubbliche, coinvolgendo la moneta unica. Pesante è la caduta dell'occupazione, soprattutto giovanile.
Chi sono i colpevoli? Secondo l'opinione prevalente banchieri senza scrupoli, grandi investitori internazionali, tedeschi prepotenti e, in Italia, politici corrotti e sperperatori del denaro pubblico, evasori fiscali. Questa visione largamente condivisa coglie aspetti fondamentali della crisi che ci affligge, ma probabilmente  non ne individua le ragioni profonde, le radici più nascoste e lontane. Si rivela allora prezioso il lavoro degli osservatori meno preoccupati di compiacere l'opinione pubblica. Tra essi Piero Ostellino, che in lungo editoriale sul Corriere della Sera scrive:

" Siamo finiti nei guai, con la crisi del debito sovrano, non per l’evasione fiscale, la corruzione, bensì perché la spesa pubblica si è dilatata per sovvenzionare un modello di welfare «ormai morto» (copyright Mario Draghi), ubbidendo a un’istanza morale, la giustizia sociale".

"La crescita non la si produce per decreto, ma allargando i confini entro i quali si concretano l’autonomia e le capacità creative della società civile. Lo statalismo, qui, non è la soluzione, ma il problema. Si metta, dunque, mano alla riforma dello Stato— dal quale anche il liberalismo non può prescindere, anzi— partendo dalla revisione del suo Ordinamento giuridico, ripristinando lo Stato di diritto, oggi latente, non per aggiungere ai troppi divieti e regolamenti che riducono il cittadino a suddito altri divieti e altri regolamenti, bensì nel segno dell’individualismo metodologico, cioè del primato della centralità e dell’autonomia della Persona".

Ostellino chiama in causa correttamente non solo l'Ordinamento, ma la visione morale e politica che lo ha ispirato. Essa, volgarizzata e diffusa, accompagna però sempre più condotte di vita irresponsabili, contribuendo a creare e legittimando aspettative insostenibili.
Pare ragionevole dubitare che "l'autonomia e le capacità creative della società civile", non più sorrette da adeguate cultura e tradizioni, siano in grado di rendere il sistema Italia di nuovo competitivo. 
"La prevalenza del principio di realtà sul moralismo, delle «dure repliche della storia» sul dover essere" si concreta appunto, purtroppo, nella determinante perdita di competitività che contraddistingue molta produzione Italiana. Se anche il nostro consumatore potesse e volesse spendere di più, comprerebbe prevalentemente beni e servizi prodotti all'estero.
Considerazioni in parte analoghe valgono per la maggior parte delle altre democrazie occidentali. Il declino non è inevitabile. Ma l'opinione pubblica deve conseguire una visione insieme più profonda e realistica dei problemi, accettarne la complessità, comprendere l'amara asimmetria della costruzione/distruzione sociale. Tradizioni, istituzioni, corpi intermedi, capacità produttive, cultura si deteriorano non raramente in pochi anni. Ma per risorgere e rinnovarsi hanno bisogno di molto tempo.

martedì 22 maggio 2012

Economia sociale di mercato islamica.


Su AsiaNews un'attenta analisi di un fenomeno emergente: la politica economica dei movimenti islamici.

"Saliti al potere nei Paesi della Primavera araba, i partiti islamici cercano soluzioni per rilanciare l’economia degli Stati islamici. Per Fawaz A Gerges, docente di relazioni internazionali alla London School of Economics, il capitalismo liberista è il nuovo modello utilizzato dagli islamisti dopo anni di socialismo. La Turchia faro dei nuovi movimenti islamici".

"Dopo le rivolte che hanno sconvolto il mondo arabo, gli islamisti e gli attivisti religiosi stanno prendendo il potere in Nord Africa e Medio Oriente".

"I partiti islamisti stanno diventando sempre di più degli "erogatori di servizi" a conferma che la loro legittimità politica e la probabilità di rielezione si basa sulla capacità di offrire posti di lavoro, crescita economica e trasparenza. Ciò ha introdotto un enorme livello di pragmatismo nelle politiche dei movimenti di ispirazione religiosa".

"Lo sviluppo economico della Turchia ha avuto un forte impatto sugli islamisti arabi, molti dei quali vorrebbero emulare il modello turco... Il modello offerto da Ankara, che ha il suo perno nella borghesia osservante, ha fatto emergere che islamismo e capitalismo sono compatibili e si rafforzano reciprocamente".

"...ciò che distingue i gruppi di ispirazione religiosa da quelli di sinistra o nazionalisti è una spiccata sensibilità verso gli affari, compresa l'accumulazione di ricchezze e l'economia di libero mercato. L'islamismo è un movimento borghese composto in gran parte dai professionisti della classe media, uomini d'affari, negozianti, commercianti e piccoli imprenditori".

"Fra i radicali islamici, l'approccio interventista è appoggiato soprattutto dai salafiti, che chiedono con forza l'utilizzo di misure di ridistribuzione della ricchezza per ridurre la crescente povertà. Tuttavia, per la maggior parte degli islamisti l'approccio dominante all'economia, con poche variazioni, è il capitalismo di libero mercato".

Non pochi osservatori di questo importante fenomeno hanno visto analogie con l'economia sociale di mercato tedesca, teorizzata da Wilhelm Roepke.

In questa "la competizione e il gioco della domanda e dell'offerta non producono per noi tutte quelle risorse «morali» di cui abbiamo bisogno". Il mercato deve "essere controllato e «moderato» - ma, attenzione, non dallo Stato, bensì dall'etica di quanti volontariamente contribuiscono al buon funzionamento del mercato stesso".

Il disegno dei partiti islamici incontra in questa prospettiva parecchi ostacoli. Prima di tutto la grave situazione sociale e politica. La cosiddetta "Primavera araba" ha travolto regimi autoritari più o meno laici, ma il nuovo stenta a decollare. I movimenti islamici hanno sviluppato robuste reti assistenziali, radicate nel territorio. Questo impegno e la prolungata opposizione ai vecchi regimi spiegano la presa sull'elettorato. Ma la borghesia professionale e gli imprenditori urbani restano minoranza. In milioni di contadini, giovani senza lavoro, abitanti delle periferie delle grandi città convivono la richiesta di sviluppo e benessere rivolta al potere pubblico e la insufficiente consapevolezza delle difficoltà.
I principi religiosi e le tradizioni pongono seri problemi. Se il divieto di corrispondere interessi  e l'obbligo di ancorare la finanza all'economia reale rappresentano elementi compatibili con l'auspicato sviluppo, la tradizionale tendenza a far coincidere le regole religiose con le norme civili, i peccati con i reati, può determinare rigidità insostenibili. Anche il ruolo riservato alle donne dalla tradizione può ostacolare il conseguimento dei risultati sperati.
Se dunque il cosiddetto mercato sociale trova in principi morali, tradizioni e corpi sociali intermedi adeguati il presupposto della propria stessa esistenza e la condizione di un positivo ruolo e sviluppo, occorre evitare un giudizio affrettato ed acritico sulle tendenze in atto nelle variegate società islamiche.
Ma se il modello turco, pure non privo di fragilità e debolezze, si affermasse estesamente, una ulteriore importante sfida verrebbe lanciata alle economie occidentali in crisi. Un motivo in più per accelerare le riforme strutturali indispensabili per colmare un divario di competitività ogni giorno più pesante.

mercoledì 16 maggio 2012

Crisi: competitività, consumi e occupazione.


Nel febbraio 2011, quando ancora era il più autorevole candidato alla guida della BCE, Mario Draghi ha concesso un' intervista a Tobias Piller, giornalista tedesco molto noto in Italia. In questa occasione ha discusso i nodi della crisi, diventata oggi più assillante.
A più di un anno di distanza il dibattito pubblico, segnato da un miope eurocentrismo, si concentra sul rapporto tra "rigore" e crescita, senza porre in primo piano il tema della competitività. Mentre invece proprio dall'insufficiente competitività dipende la stagnazione/recessione in atto.

PILLER:

"Accanto alla disciplina di bilancio cos'è necessario per la sopravvivenza dell’unione monetaria?".

DRAGHI:

"La seconda importante condizione è che tutti i paesi conducano riforme strutturali per accelerare la crescita economica. La crescita è la seconda colonna sulla quale si costruisce la stabilità finanziaria".

PILLER:

"Se si seguono le sue idee, la Germania non dovrebbe avere paura di perdere competitività in una europeizzazione della politica economica?".

DRAGHI:

"Al contrario, noi tutti dobbiamo seguire l'esempio della Germania e questo l’ho detto apertamente in diverse occasioni. La Germania ha migliorato la propria forza di competitività portando avanti riforme strutturali. Deve essere questo il nostro modello".

La crisi attuale può essere fronteggiata con successo soltanto affiancando alla disciplina dei bilanci pubblici incisive riforme strutturali capaci di rendere più competitivi le imprese ed il sistema paese intero.
Riduzione del carico fiscale e contributivo su imprese e lavoro, riforma dello stato sociale e della pubblica amministrazione, snellimento della burocrazia, diminuzione dei costi dell'energia, liberalizzazioni, revisione delle leggi sul lavoro e riassetto delle relazioni sindacali. Tutto questo è necessario per promuovere una crescita economica sana e vitale, alimentata dalla ripresa degli investimenti privati.
Lo stesso Tobias Piller, in un suo recente intervento su Panorama del 16 maggio 2012, ha presentato la questione, che rischia di apparire astratta, in termini assai realistici :

" anche se l’Italia potesse e volesse aumentare la spesa e il debito, per sostenere i consumi, sarebbe solo un nuovo spreco. Andrebbe ad arricchire coreani, cinesi, tedeschi. Perché se dai 1.000 euro a un italiano, cosa ne farebbe? Per semplificare, si compra un iPhone Apple prodotto in Cina, un televisore Samsung dalla Corea, paga la prima rata per un’auto tedesca o coreana, o forse spende per una breve vacanza a Sharm el-Sheikh. E quanto rimane in Italia, se i prodotti italiani (o le mete turistiche) non sono competitivi neanche di fronte ai consumatori italiani? E quali sono gli effetti sull’occupazione, se i produttori di successo, quando crescono, assumono solo per nuove fabbriche fuori dall’Italia? Bisogna prima fare le riforme «supply side», per un’Italia più competitiva, poi la spinta alla domanda porta anche soldi all’Italia".

La questione della competitività nella economia globalizzata deve essere posta al centro del dibattito pubblico e compresa a fondo dai cittadini, chiamati a sacrifici che potrebbero rivelarsi altrimenti inefficaci. Del resto solo la realizzazione di tali riforme strutturali può attenuare la pressione della finanza internazionale, che non si lascia ingannare dai conigli usciti dal cappello delle banche centrali e dei governanti illusionisti.                                                                                                                                                                                                                             

mercoledì 9 maggio 2012

Crisi. Chiarezza sulle cause e sui numeri.





Adriana Cerretelli sul Sole24ore di oggi ha espresso il pensiero di molti:

"Basta Europa dei prepotenti, dei padroni che riconoscono solo la legge del più forte. Basta con l'Unione degenerata in una piramide feudale, in cima un grande Stato, l'unico davvero sovrano, e sotto la pletora di vassalli, valvassini e valvassori agli ordini. Basta con l'Europa inconcludente dei proclami: scandalosa quando la crisi economica morde, l'austerità fa il resto e il lavoro si trova sempre meno".

"Senza però una crescita economica tangibile, e non declamatoria, senza nuovi posti di lavoro, ponti e autostrade trans-europee, reti digitali ed energetiche, in breve senza l'Europa delle opportunità e della speranza al posto di quella del rigore e della disperazione, dalla palude non si esce".

La Germania è prepotente, il rigore è ottuso, l'indispensabile crescita si ottiene allentando le redini che frenano la spesa pubblica e consentendo all'Unione Europea di emettere obbligazioni per realizzare infrastrutture. Ma è davvero così? Quali sono le reali cause della crisi? E' possibile un accordo sui suoi numeri? Nei giorni scorsi Irene Tinagli, Nicola Rossi e Luca Ricolfi, squarciando il conformismo che vela lo sguardo dell'opinione pubblica, hanno individuato nella bassa produttività, nell'insufficiente competitività, nelle eccessive spesa pubblica e pressione fiscale le principali cause della crisi italiana.

Tinagli:

"Se l’Italia non è in grado di trasformare in maniera efficiente i suoi fattori produttivi in prodotti e servizi competitivi sui mercati internazionali (e farlo su larga scala, non in pochissime nicchie), non possiamo aspettarci che aumentino le retribuzioni, il Pil, i consumi e quant’altro".

Ricolfi:

"Quel che è venuto a mancare, dagli Anni 90, è invece l’hardware del Paese, ossia quell’insieme di condizioni materiali che permettono di fare impresa e competere con gli altri Paesi: buone infrastrutture, prezzi dell’energia competitivi, contributi sociali ragionevoli, basse aliquote societarie. Insomma, cose molto prosaiche, ma che fanno la differenza, ad esempio convincendo gli investitori stranieri a creare posti di lavoro nel nostro Paese".

Rossi:

"...l’obbiettivo è invece la modifica sostanziale della “way of life”, del modo di essere del settore pubblico italiano. La chiusura di parte dei programmi di spesa esistenti. La ridefinizione dell’ambito d’azione e di intervento dello Stato".

Le considerazioni di Cerretelli paiono fuorvianti. Nuove infrastrutture sono necessarie per incrementare produttività e competitività. Ma la loro realizzazione quanto incide su tali parametri? Quali altre misure sarebbero necessarie? Come ridurre la spesa pubblica e la pressione fiscale?
La crisi è internazionale e richiede risposte nazionali e sovranazionali. Direttamente o indirettamente saranno giudicate dagli elettori, che possono sfuggire all'abbraccio fatale delle illusioni solo disponendo di indicazioni chiare e di numeri condivisi. Chi professionalmente ha il compito di informare ed educare deve essere ben consapevole del proprio ruolo e delle proprie responsabilità.





martedì 1 maggio 2012

Italia in crisi. Diversamente moderni.




Ernesto Galli della Loggia (Tre giorni nella storia d'Italia, 2010, pp. 8-11) ha lucidamente osservato che:

"Pur con molti tratti particolari, l'Italia che nel 1914 si affacciava alla modernità era tutto sommato - nel suo impianto civile, amministrativo e di governo, nei suoi ideali - un paese molto simile agli altri della parte d'Europa che era la sua. Anche perchè, essendo arrivato all'Unità quasi spoglio di tradizioni e di un passato statale significativo, esso aveva dovuto prendere a prestito da altri paesi e trapiantarli in casa propria istituzioni, leggi, modelli organizzativi".
"... avevamo "copiato" da Francia e Germania soprattutto: e ci era riuscito senza troppe difficoltà".
"Dopo il primo conflitto mondiale, invece, inizia un'esperienza novecentesca che sempre più farà dell'Italia un paese con caratteristiche proprie e distinte".

"...essa produce e vede in un ruolo centrale, nel Novecento, alcune culture politiche delle quali, prese nel loro insieme, sarebbe difficile trovare un corrispettivo altrove: il nazionalfascismo, un certo cattolicesimo politico, il socialismo massimalista, il comunismo gramsciano; alle quali non sarebbe forse improprio aggiungere il berlusconismo, che pure si presenta come, e in certo senso è, il superamento di tutte le precedenti".
"...per l'intero arco del Novecento italiano...tutte le culture della nostra tradizione politica... hanno condiviso...un progetto di modernizzazione ideologicamente mobilitante e guidato pedagogicamente dalla politica e dalle sue élite in nome di forti esigenze di carattere collettivo (vuoi nazionale, vuoi sociale, vuoi religioso)".

A questa evoluzione corrispondono l'affermazione del regime mussoliniano, la Resistenza egemonizzata dal partito comunista, la nascita della Repubblica dei partiti, che per lunghi decenni hanno gestito direttamente una parte importante dell'economia italiana, la democrazia bloccata. A tale evoluzione sono pure connessi la distribuzione geografica della popolazione sul territorio e il tessuto produttivo imprenditoriale. Su La Stampa Irene Tinagli sottolinea le peculiarità italiane: 

" Il 66,4% degli italiani vive in città piccole o medie, con meno di 50.000 abitanti, e solo il 22,8% vive nelle 45 città italiane con oltre 100.000 abitanti.

Non solo, ma questo dato fa parte di un trend che va rafforzandosi. I Comuni di dimensione medio-piccola (tra 5 mila e 20 mila abitanti) hanno aumentato la popolazione dell’8,1% (un valore quasi doppio rispetto a quello nazionale).

Quelli di medie dimensioni del 5,2%, mentre nei Comuni grandi la popolazione è rimasta pressoché stazionaria (0,2%). Le grandi città, in sostanza, perdono abitanti mentre sono quelle medie e piccole ad attrarne.

Questi dati colpiscono molto perché sono in controtendenza con quanto avviene nel resto del mondo. Da diversi anni ormai molti osservatori internazionali hanno evidenziato una forte crescita delle grandi città. Un fenomeno trainato non solo dallo sviluppo dell’Asia e di altri Paesi emergenti con le loro megalopoli da decine di milioni di abitanti, ma anche dalla rinascita di molte città occidentali, americane ed europee.

Una rinascita legata sostanzialmente a due fenomeni. Da un lato alla trasformazione del sistema economico globale, che ha visto l’emergere di nuovi settori industriali legati ai servizi avanzati, alla creatività, l’innovazione e al design – tutte cose che non solo non hanno bisogno di grandi fabbriche nelle periferie, ma che anzi traggono beneficio dalla prossimità a servizi, aziende, professionisti e attività «complementari» alle proprie. Dall’altro lato al parallelo cambiamento nella struttura occupazionale di molti Paesi, con l’aumento del peso di professionisti, manager, designer, ingegneri ed altre professionalità altamente qualificate. Persone che, come mostrano molti studi, tendono a preferire uno stile di vita «urbano», con più servizi e con maggiori attività ricreative e culturali a disposizione".

Nel  nostro paese i servizi avanzati e le professionalità altamente qualificate non hanno trovato un ambiente favorevole. Ciò ha concorso a frenare la crescita economica e civile. Ma si deve rilevare che, negli altri paesi con cui ci misuriamo, tali servizi e professionalità non hanno rappresentato una valida e durevole soluzione dei problemi occupazionali se ad essi non è stata collegata una forte produzione manifatturiera di qualità.
Come nei primi decenni dopo la sua unificazione l'Italia può e deve guardare fuori dei propri confini per correggere i propri errori e non ripetere quelli commessi da altri. I rigurgiti nazionalisti e le ossessioni identitarie sono da respingere, ma vanno coltivate le attività non delocalizzabili e le esistenti reti manifatturiere capaci di rispondere alla sfida della globalizzazione.
La Germania ha saputo coniugare lo sviluppo di servizi e professionalità avanzati con una solida e competitiva industria manifatturiera di qualità. Come già nell'Italia giolittiana il sistema tedesco rappresenta  per il paese in larga misura un modello da imitare.



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