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mercoledì 16 maggio 2012

Crisi: competitività, consumi e occupazione.


Nel febbraio 2011, quando ancora era il più autorevole candidato alla guida della BCE, Mario Draghi ha concesso un' intervista a Tobias Piller, giornalista tedesco molto noto in Italia. In questa occasione ha discusso i nodi della crisi, diventata oggi più assillante.
A più di un anno di distanza il dibattito pubblico, segnato da un miope eurocentrismo, si concentra sul rapporto tra "rigore" e crescita, senza porre in primo piano il tema della competitività. Mentre invece proprio dall'insufficiente competitività dipende la stagnazione/recessione in atto.

PILLER:

"Accanto alla disciplina di bilancio cos'è necessario per la sopravvivenza dell’unione monetaria?".

DRAGHI:

"La seconda importante condizione è che tutti i paesi conducano riforme strutturali per accelerare la crescita economica. La crescita è la seconda colonna sulla quale si costruisce la stabilità finanziaria".

PILLER:

"Se si seguono le sue idee, la Germania non dovrebbe avere paura di perdere competitività in una europeizzazione della politica economica?".

DRAGHI:

"Al contrario, noi tutti dobbiamo seguire l'esempio della Germania e questo l’ho detto apertamente in diverse occasioni. La Germania ha migliorato la propria forza di competitività portando avanti riforme strutturali. Deve essere questo il nostro modello".

La crisi attuale può essere fronteggiata con successo soltanto affiancando alla disciplina dei bilanci pubblici incisive riforme strutturali capaci di rendere più competitivi le imprese ed il sistema paese intero.
Riduzione del carico fiscale e contributivo su imprese e lavoro, riforma dello stato sociale e della pubblica amministrazione, snellimento della burocrazia, diminuzione dei costi dell'energia, liberalizzazioni, revisione delle leggi sul lavoro e riassetto delle relazioni sindacali. Tutto questo è necessario per promuovere una crescita economica sana e vitale, alimentata dalla ripresa degli investimenti privati.
Lo stesso Tobias Piller, in un suo recente intervento su Panorama del 16 maggio 2012, ha presentato la questione, che rischia di apparire astratta, in termini assai realistici :

" anche se l’Italia potesse e volesse aumentare la spesa e il debito, per sostenere i consumi, sarebbe solo un nuovo spreco. Andrebbe ad arricchire coreani, cinesi, tedeschi. Perché se dai 1.000 euro a un italiano, cosa ne farebbe? Per semplificare, si compra un iPhone Apple prodotto in Cina, un televisore Samsung dalla Corea, paga la prima rata per un’auto tedesca o coreana, o forse spende per una breve vacanza a Sharm el-Sheikh. E quanto rimane in Italia, se i prodotti italiani (o le mete turistiche) non sono competitivi neanche di fronte ai consumatori italiani? E quali sono gli effetti sull’occupazione, se i produttori di successo, quando crescono, assumono solo per nuove fabbriche fuori dall’Italia? Bisogna prima fare le riforme «supply side», per un’Italia più competitiva, poi la spinta alla domanda porta anche soldi all’Italia".

La questione della competitività nella economia globalizzata deve essere posta al centro del dibattito pubblico e compresa a fondo dai cittadini, chiamati a sacrifici che potrebbero rivelarsi altrimenti inefficaci. Del resto solo la realizzazione di tali riforme strutturali può attenuare la pressione della finanza internazionale, che non si lascia ingannare dai conigli usciti dal cappello delle banche centrali e dei governanti illusionisti.                                                                                                                                                                                                                             

mercoledì 9 maggio 2012

Crisi. Chiarezza sulle cause e sui numeri.





Adriana Cerretelli sul Sole24ore di oggi ha espresso il pensiero di molti:

"Basta Europa dei prepotenti, dei padroni che riconoscono solo la legge del più forte. Basta con l'Unione degenerata in una piramide feudale, in cima un grande Stato, l'unico davvero sovrano, e sotto la pletora di vassalli, valvassini e valvassori agli ordini. Basta con l'Europa inconcludente dei proclami: scandalosa quando la crisi economica morde, l'austerità fa il resto e il lavoro si trova sempre meno".

"Senza però una crescita economica tangibile, e non declamatoria, senza nuovi posti di lavoro, ponti e autostrade trans-europee, reti digitali ed energetiche, in breve senza l'Europa delle opportunità e della speranza al posto di quella del rigore e della disperazione, dalla palude non si esce".

La Germania è prepotente, il rigore è ottuso, l'indispensabile crescita si ottiene allentando le redini che frenano la spesa pubblica e consentendo all'Unione Europea di emettere obbligazioni per realizzare infrastrutture. Ma è davvero così? Quali sono le reali cause della crisi? E' possibile un accordo sui suoi numeri? Nei giorni scorsi Irene Tinagli, Nicola Rossi e Luca Ricolfi, squarciando il conformismo che vela lo sguardo dell'opinione pubblica, hanno individuato nella bassa produttività, nell'insufficiente competitività, nelle eccessive spesa pubblica e pressione fiscale le principali cause della crisi italiana.

Tinagli:

"Se l’Italia non è in grado di trasformare in maniera efficiente i suoi fattori produttivi in prodotti e servizi competitivi sui mercati internazionali (e farlo su larga scala, non in pochissime nicchie), non possiamo aspettarci che aumentino le retribuzioni, il Pil, i consumi e quant’altro".

Ricolfi:

"Quel che è venuto a mancare, dagli Anni 90, è invece l’hardware del Paese, ossia quell’insieme di condizioni materiali che permettono di fare impresa e competere con gli altri Paesi: buone infrastrutture, prezzi dell’energia competitivi, contributi sociali ragionevoli, basse aliquote societarie. Insomma, cose molto prosaiche, ma che fanno la differenza, ad esempio convincendo gli investitori stranieri a creare posti di lavoro nel nostro Paese".

Rossi:

"...l’obbiettivo è invece la modifica sostanziale della “way of life”, del modo di essere del settore pubblico italiano. La chiusura di parte dei programmi di spesa esistenti. La ridefinizione dell’ambito d’azione e di intervento dello Stato".

Le considerazioni di Cerretelli paiono fuorvianti. Nuove infrastrutture sono necessarie per incrementare produttività e competitività. Ma la loro realizzazione quanto incide su tali parametri? Quali altre misure sarebbero necessarie? Come ridurre la spesa pubblica e la pressione fiscale?
La crisi è internazionale e richiede risposte nazionali e sovranazionali. Direttamente o indirettamente saranno giudicate dagli elettori, che possono sfuggire all'abbraccio fatale delle illusioni solo disponendo di indicazioni chiare e di numeri condivisi. Chi professionalmente ha il compito di informare ed educare deve essere ben consapevole del proprio ruolo e delle proprie responsabilità.





martedì 1 maggio 2012

Italia in crisi. Diversamente moderni.




Ernesto Galli della Loggia (Tre giorni nella storia d'Italia, 2010, pp. 8-11) ha lucidamente osservato che:

"Pur con molti tratti particolari, l'Italia che nel 1914 si affacciava alla modernità era tutto sommato - nel suo impianto civile, amministrativo e di governo, nei suoi ideali - un paese molto simile agli altri della parte d'Europa che era la sua. Anche perchè, essendo arrivato all'Unità quasi spoglio di tradizioni e di un passato statale significativo, esso aveva dovuto prendere a prestito da altri paesi e trapiantarli in casa propria istituzioni, leggi, modelli organizzativi".
"... avevamo "copiato" da Francia e Germania soprattutto: e ci era riuscito senza troppe difficoltà".
"Dopo il primo conflitto mondiale, invece, inizia un'esperienza novecentesca che sempre più farà dell'Italia un paese con caratteristiche proprie e distinte".

"...essa produce e vede in un ruolo centrale, nel Novecento, alcune culture politiche delle quali, prese nel loro insieme, sarebbe difficile trovare un corrispettivo altrove: il nazionalfascismo, un certo cattolicesimo politico, il socialismo massimalista, il comunismo gramsciano; alle quali non sarebbe forse improprio aggiungere il berlusconismo, che pure si presenta come, e in certo senso è, il superamento di tutte le precedenti".
"...per l'intero arco del Novecento italiano...tutte le culture della nostra tradizione politica... hanno condiviso...un progetto di modernizzazione ideologicamente mobilitante e guidato pedagogicamente dalla politica e dalle sue élite in nome di forti esigenze di carattere collettivo (vuoi nazionale, vuoi sociale, vuoi religioso)".

A questa evoluzione corrispondono l'affermazione del regime mussoliniano, la Resistenza egemonizzata dal partito comunista, la nascita della Repubblica dei partiti, che per lunghi decenni hanno gestito direttamente una parte importante dell'economia italiana, la democrazia bloccata. A tale evoluzione sono pure connessi la distribuzione geografica della popolazione sul territorio e il tessuto produttivo imprenditoriale. Su La Stampa Irene Tinagli sottolinea le peculiarità italiane: 

" Il 66,4% degli italiani vive in città piccole o medie, con meno di 50.000 abitanti, e solo il 22,8% vive nelle 45 città italiane con oltre 100.000 abitanti.

Non solo, ma questo dato fa parte di un trend che va rafforzandosi. I Comuni di dimensione medio-piccola (tra 5 mila e 20 mila abitanti) hanno aumentato la popolazione dell’8,1% (un valore quasi doppio rispetto a quello nazionale).

Quelli di medie dimensioni del 5,2%, mentre nei Comuni grandi la popolazione è rimasta pressoché stazionaria (0,2%). Le grandi città, in sostanza, perdono abitanti mentre sono quelle medie e piccole ad attrarne.

Questi dati colpiscono molto perché sono in controtendenza con quanto avviene nel resto del mondo. Da diversi anni ormai molti osservatori internazionali hanno evidenziato una forte crescita delle grandi città. Un fenomeno trainato non solo dallo sviluppo dell’Asia e di altri Paesi emergenti con le loro megalopoli da decine di milioni di abitanti, ma anche dalla rinascita di molte città occidentali, americane ed europee.

Una rinascita legata sostanzialmente a due fenomeni. Da un lato alla trasformazione del sistema economico globale, che ha visto l’emergere di nuovi settori industriali legati ai servizi avanzati, alla creatività, l’innovazione e al design – tutte cose che non solo non hanno bisogno di grandi fabbriche nelle periferie, ma che anzi traggono beneficio dalla prossimità a servizi, aziende, professionisti e attività «complementari» alle proprie. Dall’altro lato al parallelo cambiamento nella struttura occupazionale di molti Paesi, con l’aumento del peso di professionisti, manager, designer, ingegneri ed altre professionalità altamente qualificate. Persone che, come mostrano molti studi, tendono a preferire uno stile di vita «urbano», con più servizi e con maggiori attività ricreative e culturali a disposizione".

Nel  nostro paese i servizi avanzati e le professionalità altamente qualificate non hanno trovato un ambiente favorevole. Ciò ha concorso a frenare la crescita economica e civile. Ma si deve rilevare che, negli altri paesi con cui ci misuriamo, tali servizi e professionalità non hanno rappresentato una valida e durevole soluzione dei problemi occupazionali se ad essi non è stata collegata una forte produzione manifatturiera di qualità.
Come nei primi decenni dopo la sua unificazione l'Italia può e deve guardare fuori dei propri confini per correggere i propri errori e non ripetere quelli commessi da altri. I rigurgiti nazionalisti e le ossessioni identitarie sono da respingere, ma vanno coltivate le attività non delocalizzabili e le esistenti reti manifatturiere capaci di rispondere alla sfida della globalizzazione.
La Germania ha saputo coniugare lo sviluppo di servizi e professionalità avanzati con una solida e competitiva industria manifatturiera di qualità. Come già nell'Italia giolittiana il sistema tedesco rappresenta  per il paese in larga misura un modello da imitare.


domenica 22 aprile 2012

Crisi. La via delle illusioni.



Dopo Francia e Austria anche l'Olanda appare in qualche affanno sotto i colpi della crisi. Il salotto buono dei paesi più virtuosi dell'Eurozona è sempre meno frequentato. La Germania resta ormai in compagnia soltanto di Finlandia e Lussemburgo. Cosi Vito Lops sul Sole 24 Ore:

"La Tripla A dell'Olanda è a rischio. Il debito elevato e le difficoltà nel tenere sotto controllo il deficit potrebbero portare i Paesi Bassi fuori dal prestigioso club dei Paesi più affidabili dell'Eurozona".

"Nella lounge della Triple A rimarrebbero solo tre posti: Germania, Lussemburgo e Finlandia"

"...la congiuntura economica ha voltato le spalle anche alla virtuosa Olanda, entrata ufficialmente in recessione nel secondo semestre del 2011. Senza dimenticare, come ricorda il Wall Street Journal, che sul Paese incombe la spada di Damocle dei debiti ipotecari, balzati oltre il 100% del Prodotto interno lordo. Una preoccupazione non di poco conto dato che i prezzi delle case hanno imboccato la strada al ribasso dal 2008".

Complessivamente il PIL dei tre paesi primi della classe citati è circa un terzo del PIL dell'intera Eurozona. La Germania è ormai vicina al pareggio di bilancio, ma lo stock del debito pubblico rimane imponente. Il suo valore assoluto è superiore a quello italiano. Includendo passività da considerare pubbliche, è ormai oltre il 90% del PIL. Si consideri inoltre che paesi come Francia, Austria e Olanda non hanno intere regioni devastate dalla criminalità organizzata e non offrono il tragicomico spettacolo italiano dello sperpero del denaro pubblico e di una pubblica amministrazione gravemente inefficiente. Evidentemente soffrono gli effetti di un welfare insostenibile.
Se questi sono i termini quantitativi e qualitativi della crisi finanziaria europea, paiono illusorie le terapie oggi invocate da molti. Mutualizzazione dei debiti, eurobond, eliminazione dei vincoli imposti alla Banca Centrale Europea renderebbero agli occhi degli investitori internazionali più debole la Germania, solida ma troppo piccola per caricare sulle proprie spalle il fardello finanziario europeo, senza migliorare apprezzabilmente le prospettive di crescita delle economie del resto dell' area, appesantite dall'insufficiente competitività, non compensata davvero neppure da un indebolimento dell'euro. Basti pensare all'aumento conseguente dei costi delle materie prime, energetiche e non, dei semilavorati e dei prodotti tecnologici di ampio consumo che non vogliamo o non sappiamo più produrre.
In una recente intervista la cancelliera tedesca Angela Merkel ha chiarito la propria visione:

"L’Europa ha bisogno di più crescita e più occupazione: anche in futuro deve potersi affermare nella concorrenza mondiale. Io voglio che l’Europa, anche fra venti anni, sia apprezzata per il suo potenziale innovativo e per i suoi prodotti. Si tratta di come noi riusciremo ad affermarci in futuro nell’era della globalizzazione, e quindi a garantire anche in futuro il nostro benessere".

"Noi siamo solidali, non dobbiamo però neppure dimenticare la responsabilità propria. Sono due lati della stessa medaglia. Non ha senso promettere sempre più soldi, senza combattere contro le cause della crisi".

"Con tutti gli aiuti miliardari ed i meccanismi salva stati, noi in Germania dobbiamo fare attenzione che alla fine, neppure a noi, vengano a mancare le forze, perché neanche le nostre possibilità sono infinite, e questo non servirebbe a nessuno in Europa".

"...non sarebbe utile a nessuno se la Germania si indebolisse. Ovviamente, col tempo dobbiamo correggere gli squilibri in Europa, per raggiungere questa meta sono gli altri Paesi che devono aumentare di nuovo la loro competitività e non la Germania che deve diventare più debole".

"Non voglio un’Europa museo di tutto ciò che una volta era valido, bensì un’Europa in cui con successo si creano novità. So che per molti questo comporta un cambiamento molto, molto grande, dobbiamo quindi sostenerci a vicenda. Ma se ci tiriamo indietro dinanzi a questi sforzi, siamo solo gentili tra di noi e annacquiamo ogni tentativo di riforma, allora sicuramente rendiamo un pessimo servizio a l’Europa".

Merkel chiama l'Europa intera ad incrementare competitività e innovazione, a riformare welfare e legislazione del lavoro. Un richiamo severo che ai nostri orecchi poco avvezzi al discorso realistico può sembrare pura espressione di una teutonica inclinazione a dominare. Ma fortunatamente ci sono anche intellettuali italiani capaci di indicare all'opinione pubblica percorsi non illusori di uscita dalla crisi.
Tra questi:

Nicola Rossi

"... l’attuale modo di essere del settore pubblico italiano ammette solo due possibilità: moderata crescita ed alto debito (come negli anni ottanta) o finanze pubbliche in ordine, elevata pressione fiscale e nessuna crescita. La prima strada è per fortuna preclusa. La seconda è quella scelta dai governi degli ultimi quindici anni. Incluso l’attuale. Auguri!".

"l’obbiettivo è invece la modifica sostanziale della “way of life”, del modo di essere del settore pubblico italiano. La chiusura di parte dei programmi di spesa esistenti. La ridefinizione dell’ambito d’azione e di intervento dello Stato".

"Come può non essere pronto a regole vere di responsabilità fiscale un paese soffocato da una pressione fiscale nominale del 45% e reale del 55% a fronte della quale si fatica a trovare i corrispondenti servizi pubblici?".

Luca Ricolfi

"Spiace dovere battere così spesso sul medesimo ferro, ma mi pare davvero una generosa illusione quella di pensare che per uscire dalla stagnazione l’Italia abbia oggi bisogno innanzitutto di cambiare il suo software (il suo modo di pensare), e non sia invece il suo hardware (la macchina della sua economia) che è diventato un ferrovecchio. L’Italia è sempre stata priva di spirito civico, o capitale sociale, ma questo fragile software - fino a venti anni fa - non le ha impedito di crescere di più delle altre economie avanzate, fino a conquistare il benessere che ora stiamo cominciando a perdere. Quel che è venuto a mancare, dagli Anni 90, è invece l’hardware del Paese, ossia quell’insieme di condizioni materiali che permettono di fare impresa e competere con gli altri Paesi: buone infrastrutture, prezzi dell’energia competitivi, contributi sociali ragionevoli, basse aliquote societarie. Insomma, cose molto prosaiche, ma che fanno la differenza, ad esempio convincendo gli investitori stranieri a creare posti di lavoro nel nostro Paese".

"È vero, i mercati sono diventati «animali molto sensibili», e i segnali, gli umori, le emozioni, sono diventate cose sempre più importanti nel mondo di oggi. Ma non tutta l’economia è finanza (per fortuna) e, alla fine, quel che conta davvero - quel che sposta i capitali e fa vincere sui mercati - sono i costi di produzione. Da un governo tecnico, per di più pieno di economisti, non mi sarei mai aspettato tanta attenzione alle impalpabili vicissitudini dell’animo umano, e tanto poca considerazione per la dura, concreta, pietrosa, realtà di chi produce e cerca di stare sul mercato".

Maurizio Ferrera

"Più di due milioni di lavoratori disoccupati, quasi tre di scoraggiati, crescita sotto zero: l'Italia non sta bene. I governi dell'Unione Europea stanno consegnando a Bruxelles i nuovi Programmi nazionali di riforma (Pnr). La distanza dai Paesi con cui ci confrontiamo è enorme. I nostri punti di partenza erano già molto bassi due anni fa, quando fu lanciata la Strategia «Europa 2020» per rendere l'Unione competitiva. Da allora non abbiamo fatto altro che peggiorare".

"...serve una politica esplicita e coerente per l'inclusione di quanti sono rimasti fuori dal mondo del lavoro. Altrimenti si corre il rischio che, se e quando la crescita arriverà, i suoi effetti si facciano sentire solo all'interno delle tradizionali cittadelle. Nell'agenda del Pnr manca una riforma (migliorativa) che sarebbe essenziale: quella dell'assistenza, delle politiche e dei servizi alla persona. La spending review , la revisione della spesa, il riordino del fisco e la revisione dell'Isee (lo strumento che seleziona i beneficiari delle agevolazioni in base alla situazione economica) potrebbero fornire le risorse necessarie".

Irene Tinagli

"Il vero problema, come indicava Draghi e come ha ribadito un paio di giorni fa l’attuale governatore Visco, risiede nella produttività. Proprio la Banca d’Italia in uno studio sui primi dieci anni di Unione Monetaria (1998-2008) ha mostrato come la produttività sia aumentata del 18% in Francia, del 22% in Germania e del 3% in Italia.
Se l’Italia non è in grado di trasformare in maniera efficiente i suoi fattori produttivi in prodotti e servizi competitivi sui mercati internazionali (e farlo su larga scala, non in pochissime nicchie), non possiamo aspettarci che aumentino le retribuzioni, il Pil, i consumi e quant’altro".

Gian Maria Gros-Pietro

"ciò non vuol dire che i mercati finanziari si regolino sulla bussola dell'economia reale; ad essi interessano primariamente gli inevitabili effetti finanziari, che cercano di prevedere e anticipare nelle quotazioni: in questo caso scontano un'ulteriore flessione dell'attività in Europa, un conseguente appesantimento delle finanze pubbliche locali, quindi un minor valore dei titoli di Stato di cui si sono imbottite le banche europee, che pertanto sono le più bersagliate dalle vendite".

"È sempre più intollerabile assistere alla continua aggiunta di pesi – imposte, accise, adempimenti – e riduzione di trasferimenti verso la parte del Paese che produce e compete, mentre nessun sacrificio tocca a chi non compete, non è misurato nel suo sforzo, non è controllato negli adempimenti. Qui sì che occorre una svolta decisa, dalle privatizzazioni alle liberalizzazioni alla riduzione della sfera pubblica nel senso più ampio. Se lo si facesse, si scoprirebbe che i mercati finanziari sanno tradurre in valore le aspettative, come accadde sul finire dello scorso anno".

La via delle illusioni conduce al declino, ma non è inevitabile.


venerdì 13 aprile 2012

Soldi e politica. Dal finanziamento illecito dei partiti all'appropriazione indebita.

In questo interessante video, relativo al processo Cusani, Bettino Craxi risponde alle domande del pubblico ministero Antonio Di Pietro.



Ha scritto il professor Ernesto Galli della Loggia in Tre giorni nella storia d'Italia, 2010, pp. 108 e segg.:

"Nella Prima Repubblica, insomma, la politica diviene erogatrice, amministratrice e intermediaria di imponenti flussi finanziari dalla natura così varia e a così tanti livelli istituzionali da sfuggire ad ogni realistica possibilità di controllo".

"Per tutta la durata della Prima Repubblica, attraverso il sistema delle partecipazioni statali, la politica, nel nostro paese, era stata la proprietaria diretta di oltre un terzo dell'economia".

"Complessivamente, dal 1973 al 1979, secondo la documentazione sovietica esaminata da Victor Zaslavsky, arriva al Pci, da Mosca, la bella somma di 32-33 milioni di dollari".

"Dall'America giungono alla Democrazia cristiana, nel periodo 1948-68, secondo una commissione d' indagine Usa, 65 milioni di dollari (sono circa tre milioni l'anno)".

"Nell'Italia della Prima Repubblica, insomma, intorno all'attività politica gira molto denaro. Soprattutto perché la politica costa: giornali, sedi di partito, funzionari, feste, congressi, e soprattutto le elezioni inghiottono un mare di soldi".

Con il dichiarato fine di porre un freno ad abusi ed irregolarità nel 1974 il Parlamento votò la legge sul finanziamento pubblico ai partiti, con la previsione di pene severe per la sua inosservanza. Gli interventi della Magistratura furono rarissimi fino alla primavera del 1992, quando iniziarono le inchieste di Mani Pulite. Nel 1989 era caduto il Muro di Berlino. Al 1990 risale l'amnistia dei finanziamenti illeciti ai partiti. Nel 1991 si sciolse l'Unione Sovietica. Mentre la Democrazia cristiana ed il Partito socialista si dissolsero per effetto di tali inchieste, l'ex Partito comunista restò sostanzialmente indenne.
Un referendum popolare abrogò nel 1993 il finanziamento pubblico ai partiti ma il Parlamento, con interventi legislativi ripetuti dallo stesso 1993 ad oggi, disponendo l'erogazione di imponenti "rimborsi elettorali", ha di fatto reintrodotto tale finanziamento.
Queste le vicende che conducono alla situazione attuale segnata, rispetto alla cosiddetta Prima Repubblica, dalla riduzione del settore dell'economia direttamente gestito dalla politica, dalla persistente rilevante ingerenza della politica stessa nelle attività economiche, dal bipolarismo sgangherato che ha preceduto l'attuale governo "tecnico", dal discredito in cui sono caduti i partiti e i movimenti politici.
Non più consolidati dalla situazione internazionale e dal cemento ideologico, la loro credibilità è ogni giorno più lesa dagli scandali e dall'incapacità di fronteggiare la crisi economica. I trasferimenti di denaro pubblico alla politica sono oggi avversati radicalmente dall'opinione pubblica, che chiede tagli drastici. E' difficile dare una nuova efficiente disciplina alla materia sotto la pressione degli eventi. Ma, come sempre, i risultati migliori sono prodotti da un attento approccio comparativo. La legislazione delle altre democrazie occidentali deve ispirare la riforma. Senza dimenticare che anche le buone leggi hanno bisogno di un adeguato livello di osservanza spontanea.






domenica 8 aprile 2012

Una grande politica per il nostro tempo.

Oggi il professor Ernesto Galli della Loggia, sul Corriere della Sera, ha commentato le recenti vicende politiche italiane con queste parole:

"Ma così ancora una volta il Nord, quel Nord che ho definito sopra «ideologico», ha dimostrato la sua antica, direi storica, difficoltà a fare politica, la sua incapacità a rappresentare un soggetto politico all'altezza dei suoi propositi.
Difficoltà e incapacità che hanno una sola origine: l'idea, condivisa tanto dalla Lega che dal berlusconismo, che al dunque la politica possa essere, e di fatto sia, solo rappresentanza di interessi (inclusi quelli di coloro che la fanno...), e nulla più. Non già, come invece è, visione generale, indicazione di traguardi collettivi e di strumenti adeguati, impulso autonomo mosso da valori, e su queste basi, poi, ma solo poi, anche mediazione creativa tra esigenze diverse".

Senza "visione generale, indicazione di traguardi collettivi e di strumenti adeguati, impulso autonomo mosso da valori", superamento della mera rappresentanza di interessi, non c'è grande politica capace di risolvere problemi. Si tratta di considerazioni condivisibili ma ovvie e non prive di una certa astrattezza, non toccando le condizioni, i presupposti, i limiti e i pericoli di ogni politica che guardi oltre gli interessi particolari tentando di dar corpo a visioni generali e soluzione a grandi problemi.
Molti pensano che sia soprattutto necessaria la disponibilità di statisti adeguati per ingegno e integrità. Ma forse è ancora più importante la ricettività dell'elettorato, la capacità degli elettori di cogliere l'essenza dei problemi, di premiare con il voto politiche ampie, lungimiranti. Elettori così non si ottengono facilmente. Presuppongono tradizioni e clima colturale idonei, spesso con vicende storiche impressionanti per intensità e tragicità come catalizzatori.
Si deve poi sottolineare il pericolo insito in ogni approccio esteso, in ogni visione generale dalla forte connotazione etica. Il rischio è quello di tentare di sottrarsi alla critica ed al giudizio, di continuare a percorrere con ostinazione vie che si sono rivelate sbagliate, di non riuscire a correggere gli errori. La grande politica corre sul filo del rasoio. Possono talvolta essere inaccettabili i suoi grandi obiettivi e/o intollerabili i suoi strumenti, i suoi metodi. Ma di essa non si può fare a meno, anche negli anni in cui la vita è meno difficile.
Le democrazie occidentali hanno conosciuto statisti lungimiranti come:


Churchill


De Gasperi


   Adenauer   


De Gaulle


Reagan


I video proposti mostrano l'ammirazione dei sostenitori ed il rispetto degli avversari. Ma non possiamo non indagare le condizioni e i limiti dei loro successi, le ragioni dei loro insuccessi, le tradizioni, i valori, le idee che hanno reso possibile e sorretto la loro opera.


martedì 3 aprile 2012

Riforma elettorale.

In uno dei suoi più recenti interventi nel dibattito pubblico Karl Popper riaffermò la sua visione della democrazia (La lezione di questo secolo - Intervista di Giancarlo Bosetti, 1992, Appendice, pp. 84 -87):

"La parola "democrazia" che significa "dominio del popolo" è purtroppo un pericolo. Ogni membro del popolo sa di non comandare, perciò sente che la democrazia è una truffa. E' qui che sta il pericolo. E' importante che si impari fin dalla scuola che "democrazia", a partire dalla democrazia ateniese, è il nome tradizionale che si dà a una costituzione che deve impedire una dittatura, una tyrannis".

"... non tutti noi possiamo governare e dirigere, ma tutti possiamo partecipare al giudizio sul governo, possiamo avere la funzione di giurati".

"Proprio questo dovrebbe essere...il giorno delle elezioni, non un giorno che legittima il nuovo governo, ma un giorno in cui noi sediamo a giudizio sul vecchio governo. Il giorno in cui il governo deve rendere conto del suo operato".


"...la differenza fra la democrazia come dominio del popolo e la democrazia come giudizio del popolo ha anche effetti pratici: non è affatto solo verbale. Lo si vede dal fatto che l'idea del dominio del popolo porta ad approvare una rappresentanza popolare proporzionale".

"Considero una disgrazia la proliferazione dei partiti e quindi anche la legge elettorale proporzionale. La frammentazione dei partiti infatti porta a governi di coalizione in cui nessuno si assume la responsabilità di fronte al tribunale del popolo perchè tutto è un inevitabile compromesso. Inoltre diviene molto incerto riuscire a liberarsi di un governo, perchè gli basterebbe trovare un nuovo piccolo partner nella coalizione per poter continuare a governare".

Il grande filosofo austriaco descrive correttamente la "democrazia" possibile e, insieme, capace di risolvere problemi. Del resto l'avversione per il proporzionalismo appartiene al miglior pensiero liberale. Basti leggere, per l'Italia, quanto lucidamente scritto da Luigi Einaudi.
Ma, come paventato da Popper, l'illusione della democrazia come governo del popolo è largamente diffusa. Da ciò la pressochè generale richiesta di maggiore "partecipazione" e di una rappresentanza politica a tal punto "specchio del popolo" da realizzare un genuino "governo popolare".
A questa visione comune a molti si aggiunge l'oggettiva difficile condizione in cui si trova l'Italia odierna, afflitta da problemi strutturali che possono essere affrontati con qualche speranza di successo solo prendendo misure impopolari.
Chi si accinge a riformare la legge elettorale deve fare i conti con queste due esigenze: venire incontro alla domanda di "partecipazione", di legittimazione popolare della rappresentanza politica, e consentire la formazione anche di governi di coalizione al di fuori della logica bipolare.
Tale situazione può condurre, qualora si giunga ad una riforma, ad una legge elettorale più proporzionale della attuale, con una attenuazione dei tratti bipolari del sistema. Una sciagura per il paese? Non necessariamente. L'Italia non può sopportare oltre un conflitto politico distruttivo. Sembra necessario accentuare la flessibilità del sistema, anche al provvisorio prezzo di rendere meno diretta l'efficacia del voto popolare.
Vale forse la pena di tollerare, esaminando i tentativi di riforma in atto, qualche distanza dai buoni principi della tradizione liberale. Con il proposito di giudicare severamente alla prossima occasione i politici che abbiano fatto cattivo uso di tale deviazione dalle migliori regole.


domenica 25 marzo 2012

Il modello Lee Kuan Yew. Singapore.


Lee Kuan Yew è stato il primo ministro di Singapore dal 1959 al 1990. Successivamente ha svolto nel governo un ruolo di influenza e consulenza. Si è ritirato nel 2011, pur continuando a partecipare al dibattito pubblico nazionale ed internazionale con scritti, interviste e conferenze.
Dopo una breve fusione con la Malesia, firmò nel 1965 un accordo di separazione che fece di Singapore uno stato indipendente e sovrano. Nei lunghi anni del suo governo il paese ha conosciuto un intenso sviluppo economico, realizzato grazie a una originale combinazione di autoritarismo politico, pianificazione familiare, approccio multiculturale, apertura agli investimenti stranieri, impulso alla costruzione di infrastrutture, edificazione di un efficiente sistema scolastico.
Il modello di governo di Singapore, caratterizzato da una repressione capillare del dissenso, dal ricorso alla pena di morte ed alle punizioni corporali (fustigazione), ma anche dalla lotta alla corruzione e dal conseguimento di obiettivi economici e sociali eclatanti, viene attentamente studiato dai gruppi dirigenti dei paesi nuovi protagonisti nel contesto internazionale segnato dalla globalizzazione.
Spesso il dibattito su questi temi esce dalle stanze del potere e dagli ambienti accademici e occupa spazi significativi sui media, vecchi e nuovi. Si confrontano sistemi autoritari come quello cinese e forme di stato democratiche, come quella indiana, che hanno consentito un notevole sviluppo economico. Alla democrazia rappresentativa liberale vengono riconosciute una maggiore efficacia legittimante, una maggiore trasparenza e una migliore capacità di gestire i conflitti. Non si deve nascondere però che le istituzioni della democrazia rappresentativa liberale vengono messe a dura prova nei periodi di grave crisi economica. Basti pensare al discredito in cui caddero negli anni Trenta del secolo scorso e che oggi si ripresenta in forme sempre più preoccupanti.
La tradizionale democrazia rappresentativa occidentale ha mostrato rilevanti problemi di efficienza. Processi decisionali pubblici farraginosi e inconcludenti, tendenza ad una espansione incontrollata della spesa pubblica, alta pressione fiscale, incapacità di far crescere le economie di mercato assicurando l'applicazione di regole generali adeguate, compromettono tradizioni e istituzioni che hanno permesso di attribuire e tutelare diritti individuali e collettivi in una misura mai prima conosciuta.
Occorre riprendere un percorso di sviluppo insieme economico e civile. La via maestra resta l'educazione alla libertà responsabile e all'autocontrollo. La manutenzione della nostra democrazia è infatti non da ora affidata ai cittadini elettori. Si formi un largo genuino consenso sulle misure necessarie. I governanti disposti a realizzarle si trovano sempre.




domenica 18 marzo 2012

Crisi: competitività decisiva.

Nonostante la cospicua riduzione dello spread relativo al tasso di interesse applicato al debito pubblico italiano, nei primi due mesi del 2012 sono rapidamente aumentate le ore di cassa integrazione autorizzate.
Secondo il segretario confederale Cgil Vincenzo Scudiere: "Il nostro sistema produttivo è invischiato in una crisi profondissima con prospettive pericolose di declino. La cosiddetta recessione tecnica comincia a dispiegare i suoi effetti sui lavoratori con un balzo deciso nella richiesta di ore di cassa. È sempre più difficile immaginare una inversione di tendenza senza una ripresa nelle produzioni e nei consumi". Scudiere riporta al centro dell'attenzione la produzione, correttamente, e i consumi, meno correttamente, perché se la competitività delle imprese che producono in Italia è bassa i consumatori acquisteranno in larga misura beni e servizi prodotti fuori del nostro paese.
Prima che il governo attualmente in carica suscitasse enormi speranze, il professor Pietro Reichlin, con riferimento alla manovra di inizio estate del precedente governo, aveva scritto sul Sole 24 ORE :

" La scommessa alla base dell'Uem è la determinazione di un equilibrio in cui un insieme di Paesi con culture, redditi e istituzioni diverse, possono crescere insieme senza ricorrere a trasferimenti unilaterali eccessivi nei confronti delle aree svantaggiate".

"Le caratteristiche del mercato interno di ogni Paese dell'Eurozona deve adattarsi alle condizioni economiche sovranazionali. Ciò significa una maggiore liberalizzazione nella circolazione di lavoro e capitale, politiche che favoriscano l'afflusso di investimenti diretti verso i Paesi periferici, liberalizzazioni per ridurre il peso dei settori protetti, una riqualificazione della spesa pubblica che favorisca la crescita del capitale umano e dell'innovazione, un sistema più efficiente di relazioni industriali e un alleggerimento della tassazione su lavoro e imprese".

"I commenti sulla manovra del Governo di questi giorni si sono concentrati molto sulla dimensione dei tagli e delle entrate. Ma se la manovra non affronta i problemi che sono alla base della mancanza di competitività del nostro Paese, l'obiettivo di portare il disavanzo primario in territorio negativo nei tempi previsti potrebbe non essere sufficiente".

Le considerazioni di Reichlin sembrano tuttora valide. Porre un freno al deficit pubblico o addirittura riportare il bilancio in pareggio non basta. Solo riducendo il divario di competitività che presentano molte imprese italiane e l'intero sistema paese si potranno creare nuovi vitali posti di lavoro e nuova ricchezza, realizzando la necessaria premessa di una riduzione del debito pubblico che non determini un insostenibile impoverimento di ampi settori della società.
Alle indicazioni dell'economista citato giova aggiungere quelle ricavabili da un incisivo studio/manifesto della Cgia di Mestre, ancora sostanzialmente corrispondente alla situazione italiana, che propone un "decalogo dei «costi diretti e indiretti che il nostro sistema economico sconta, rispetto alla media Ue, in materia di tasse, infrastrutture, giustizia civile, energia, pagamenti della Pubblica Amministrazione e competitività».
Pressione fiscale, infrastrutture, ritardi nei pagamenti della Pubblica Amministrazione, giustizia civile e istruzione, costi dell'energia, qualità delle istituzioni, criminalità organizzata, legislazione del lavoro, burocrazia, welfare costoso e inefficiente, alimentato con trasferimenti che gravano sulle regioni più produttive. Ecco il programma di governo di cui il paese ha bisogno. Vedremo se retorica e propaganda non sostituiranno una attività di governo pronta e coraggiosa.


sabato 10 marzo 2012

Cina e USA secondo Kissinger.



In un recente editoriale su La Stampa Gianni Riotta ha scritto:

"E' scontato che il prossimo conflitto del nostro pianeta veda Stati Uniti e Cina affrontarsi in guerra per l’egemonia? Lo sostengono a Pechino i falchi, persuasi da 3000 anni di timori di accerchiamento del Regno di Mezzo".

" Insomma per interessi economici, geopolitica, cultura e valori, è «inevitabile» la guerra Usa-Cina?".

"Per scongiurare la catastrofe della III guerra mondiale, la prima del XXI secolo, interviene il decano della diplomazia Henry Kissinger, con il saggio «The future of U.S. Chinese relations», che qui anticipiamo dal prossimo numero della rivista Foreign Affairs, e che già sta facendo discutere Casa Bianca e Dipartimento di Stato".

" Dopo aver criticato gli oltranzisti di Pechino e Washington, Kissinger compie il passo più astuto del buon stratega, cerca di capire quali sono le paure dei contendenti che possano scatenare mosse azzardate. La paura cinese, scrive, è essere accerchiati nei confini nazionali, senza accesso alle vie dei commerci e della comunicazione globale: ogni volta che la fobia scatta, Pechino va in guerra, Corea 1950, India 1962, Urss 1969, Vietnam 1979. La speculare angoscia americana è perdere accesso e influenza sull’Oceano Pacifico, e Kissinger, profugo europeo da bambino, ricorda che solo questo fattore trascina gli Usa in guerra nel 1941".

"Con freddezza che impressiona, Kissinger, l’uomo che col presidente Nixon ha riportato la Cina nel mondo e isolato l’Urss ai tempi della Guerra Fredda, ammonisce i rivali: non fatevi illusioni, lo scontro sarebbe nucleare, feroce e vi indebolirebbe entrambi per sempre. Devastando città ed economia e paralizzando anche, per la prima volta nella storia dell’umanità grazie alla cyber guerra, Internet e le comunicazioni, satelliti tv, Gps inclusi. «Le stesse culture» cinesi ed americane, conclude Kissinger, porterebbero i duellanti a non darsi tregua fino in fondo, lasciandosi alle spalle macerie e vittime".

L'analisi pare sbagliata a partire dalle sue premesse storiche. Secondo l'ex segretario di stato USA, come citato da Riotta, ogni volta che la fobia dell'accerchiamento scatta "Pechino va in guerra": Corea 1950, India 1962, Urss 1969, Vietnam 1979. Si tratta di conflitti profondamente diversi tra loro. Ma quello che sembra in ogni caso inesistente è proprio il fattore "accerchiamento" delineato da Kissinger.
La guerra di Corea cominciò per iniziativa del regime nord coreano e solo con il consenso di Stalin, quando la Repubblica popolare cinese, appena costituita, era ancora legata all'Unione Sovietica (Christopher ANDREW e Vasilij MITROKHIN, L'Archivio Mitrokhin - Una storia globale della guerra fredda, 2005, p. 265).
Victor Zaslavsky in Storia del sistema sovietico, 2009, pag.142, ha ben riassunto le ragioni e le circostanze dell'intervento cinese in questa guerra:

"Stalin ha formulato molto chiaramente la sua posizione riguardo alla inevitabilità e persino all'opportunità della Terza guerra mondiale in una lettera a Mao Tse-tung dell'ottobre 1950 in cui proponeva alla Cina di inviare le sue truppe in Corea". "La politica estera staliniana, basata sull'idea dell'inevitabilità della guerra, stava portando sull'orlo della Terza guerra mondiale".

Successivamente la Cina diventò un duro avversario dell'URSS. Il contrasto cino-sovietico venne alla luce nella primavera del 1960 (v. ANDREW e MITROKHIN, op.cit., pag. 273). Nel corso del 1969 ci furono alcuni scontri armati tra truppe cinesi e sovietiche, poco più che scaramucce, ma lo stesso Kissinger, come risulta da un altro suo scritto, espresse la convinzione che gli aggressori fossero i sovietici (Henry KISSINGER, White House Years, 1979, pp. 174-177).
Nel febbraio 1979 forze cinesi invasero il Vietnam, alleato dell'Unione Sovietica. Un mese prima Cina e USA avevano instaurato regolari relazioni diplomatiche, a suggello di un'intesa in funzione antisovietica (v., ancora, ANDREW e MITROKHIN, op cit, p. 288). L' invasione cinese dell'India nell'ottobre 1962 rappresentò invece una fase cruenta dell'annosa controversia sul confine tra i due paesi tuttora in atto.
Nel pensiero di Kissinger, presentato da Riotta, "L’alternativa alle armi è l’idea di una «Comunità del Pacifico», con Pechino e Washington a convivere intorno ad organizzazioni tipo Trans-Pacific Partnership, zona di libero scambio economico cui il presidente Obama vuole associare la Cina. Se i due ultimi giganti si legano reciprocamente - sul modello di Usa e Europa - possono risolvere i conflitti negoziando, magari con maratone diplomatiche estenuanti. Washington, Londra, Parigi, Berlino e Roma possono dividersi e riunirsi, ma senza spargere mai sangue".
Però Europa e USA condividono istituzioni democratiche e principi liberali. Si tratta di un'apertura reciproca fondata su comuni principi e regole fondamentali. Comunanza che non è senza conseguenze sulla competizione economica. Democrazia, libertà, rispetto dei diritti umani e dell'ambiente "costano", fanno crescere pressione fiscale, debito pubblico, costo del lavoro, costi di produzione, rallentano i processi decisionali pubblici e la costruzione di infrastrutture.
La Cina in questo senso trae dai tratti autoritari del suo regime importanti vantaggi competitivi in ambito economico. Quando l'Occidente sostiene i dissidenti cinesi persegue indirettamente l'obiettivo di una competizione economica leale, secondo regole comuni che non attribuiscano ai cinesi vantaggi ingiustificati. Una pressione di questo tipo spingerà la superpotenza cinese alla guerra? Diversamente da ciò che sembra sostenere Kissinger, pare da escludere. I governanti cinesi non sono più pesantemente condizionati dall'ideologia e non sono realmente accecati dal nazionalismo. Sono tecnocrati astuti, che non porteranno alla distruzione il loro paese e il loro popolo. Più Ronald Reagan e meno Kissinger dunque, se si vuole evitare che l'Occidente diventi sempre più terra di speculatori e di disoccupati.



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