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domenica 2 gennaio 2011

Gli intellettuali italiani tra impegno politico e ricerca della verità.

Karl Popper ha più volte affermato che non ci può essere informazione che non esprima una tendenza, che sia pura esposizione di fatti, separata da opinioni, valutazioni e preferenze.
L'insegnamento del grande filosofo austriaco pare anche su questo punto condivisibile.
Ma gli intellettuali italiani sembrano scegliere addirittura una diversa prospettiva. Molti interventi, perfino di figure eminenti per autorevolezza, mostrano un desiderio di influenzare le vicende politiche così scoperto e diretto da far pensare ad una sottovalutazione dell'intelligenza dei lettori.
Rappresenta una chiara manifestazione di tale discutibile tendenza questo editoriale sul Corriere della Sera del professor Mario Monti, ex commissario europeo e attuale presidente dell'Università Bocconi. Il tema è quello della crisi italiana, il titolo "Meno illusioni per dare speranza". Scrive il professor Monti:

"Esistono in Italia due illusionismi. Essi sono riconducibili, sia detto senza alcuna ironia, alla dottrina di Karl Marx e alla personalità di Silvio Berlusconi".
"Se Marx ha alimentato un sogno sul futuro, del quale in Italia sopravvivono tracce significative, Berlusconi ha fatto di più. Egli è riuscito ad alimentare, in moltissimi italiani, un sogno sul presente, per il quale la verifica sulla realtà dovrebbe essere più facile".

Dunque l'influenza di Silvio Berlusconi sarebbe almeno pari, quanto a perniciosità e forza, a quella di quasi un secolo di marxismo-leninismo, capillarmente diffuso dal più grande ed astuto partito comunista dell'Occidente? Una simmetrica analogia la cui istituzione è coerentemente accompagnata dalla secca liquidazione del bipolarismo italiano:

"Ma in molti altri casi, basta pensare alle libere professioni, il potere delle corporazioni ha impedito che le riforme andassero in porto o addirittura venissero intraprese. E lì non si tratta di tenaci fiammelle rivendicative fuori tempo (ma che almeno vorrebbero tutelare fasce deboli della società), bensì di corposi interessi privilegiati che, pur di non lasciar toccare le loro rendite, manovrano un polo contro l'altro: veri beneficiari del bipolarismo italiano!".

Significativo infine è l'elogio del ministro dell' istruzione del governo Berlusconi, Mariastella Gelmini:

"Questo arcaico stile di rivendicazione, che finisce spesso per fare il danno degli interessi tutelati, è un grosso ostacolo alle riforme. Ma può venire superato. L'abbiamo visto di recente con le due importanti riforme dovute a Mariastella Gelmini e a Sergio Marchionne. Grazie alla loro determinazione, verrà un po' ridotto l'handicap dell'Italia nel formare studenti, nel fare ricerca, nel fabbricare automobili".

Insomma, mentre il presidente del consiglio esercita la sua perniciosa influenza, il suo coraggioso ministro Gelmini realizza una importante riforma. Da notare che questa contrapposizione tra capacità ed opera dei singoli ministri e ruolo negativo del loro presidente del consiglio si trova in un contemporaneo articolo di RepubblicaIl competente ed attivo ministro degli esteri Frattini tenta di riportare in Italia Battisti dal Brasile. Silvio Berlusconi combina guai.
Dovremmo dunque pensare che Berlusconi, non compiendo il proprio dovere di indirizzo e coordinamento, disattenda la Costituzione. Stabilisce infatti l'art. 95 che: "Il Presidente del Consiglio dei Ministri dirige la politica generale del Governo e ne è responsabile. Mantiene l'unità di indirizzo politico ed amministrativo, promuovendo e coordinando l'attività dei Ministri". Altrimenti dovremmo ritenere che i singoli ministri non applichino le direttive ricevute. A fin di bene, s'intende.
Al presidente del consiglio che, secondo l'art. 92 della Costituzione, propone al presidente della repubblica i ministri da nominare, resta il merito di aver indicato persone capaci? Queste insomma sono le analisi che circolano in Italia. Del resto ogni paese ha gli intellettuali che si merita.



giovedì 23 dicembre 2010

Handel a Roma: un protestante tra i papisti.

George Frideric Handel (così si firmò nella seconda parte della sua vita il musicista tedesco diventato suddito inglese) nacque a Halle nel 1685 e morì in Inghilterra nel 1759. Grande compositore dell'età barocca, esercitò una profonda influenza sulla musica occidentale e riscosse un immenso successo già in vita. Visse in Italia dal 1706 al 1710 e dopo un breve soggiorno in Germania si trasferì in Inghilterra. Nel 1727 ottenne la naturalizzazione inglese. Le sue composizioni riflettono un'ampia conoscenza della musica europea contemporanea, in particolare degli autori e degli stili tedeschi, italiani e britannici.
 Memorie della vita del fu G. F. Handel, è con ogni probabilità la prima biografia di un compositore. Redatta da un ecclesiastico inglese, John Mainwaring, che raccolse i racconti del suo assistente John Christopher Smith, fu pubblicata soltanto un anno dopo la morte dello stesso Handel, nel 1760. Lo scritto è importante non soltanto nell'ambito della storia musicale. Come altri documenti del genere contribuisce efficacemente a delineare una più viva e realistica immagine della vita e della cultura dell'epoca.
Da non perdere, tra molti altri, il brano delle Memorie che narra l'approccio del protestante Handel all'ambiente cattolico controriformistico romano. A Roma infatti il compositore tedesco frequentava i palazzi degli influenti cardinali Colonna, Ottoboni e Pamphili e di alcuni dei più importanti esponenti della nobiltà pontificia.
Scrive Mainwaring (pag. 36 ed.1985 a cura di Lorenzo Bianconi): "Siccome era in famigliarità con parecchie persone dell'ordine sacro, ma aveva persuasioni affatto ripugnanti a costoro, è facile immaginare che alcuni di loro si condolessero con lui su tale argomento. Perchè come si può pensare che codesti buoni cattolici, che gli volevano davvero bene, non si sforzassero di trarlo fuori dalla strada della dannazione? Messo alle strette da uno di codesti infiammati ecclesiastici, rispose che non era capace né disposto a entrare in questioni del genere, ma che era ben deciso di morire fedele alla confessione, vera o falsa che fosse, nella quale era nato e cresciuto. Spenta la speranza di una vera conversione, si tentò di indurlo a un ossequio quantomeno esteriore. Ma né argomenti né profferte sortirono effetto alcuno, se non quello di confermarlo anche più nei principii del protestantesimo. Invero furono in pochi a esercitare su di lui tali pressioni. I più lo consideravano un uomo di onesti anche se errati principii, e quindi concludevano che non sarebbe stato facile indurlo a mutarli.
In Roma Handel compose una sorta di oratorio intitolato Resurrezione, e centocinquanta cantate, oltre a varie sonate e altre musiche.
Da Roma andò a Napoli, dove (come in altre città) aveva a disposizione un palazzo, ed era assistito con tavola, carrozza ed ogni altra comodità".
Handel, nel difendere le sue convinzioni, mostra tutta la fermezza e la fierezza del suo carattere. Ma certamente da questo racconto emerge un ambiente cattolico dai tratti assai più tolleranti di quelli che certe leggende propongono.





  Del periodo romano è l'oratorio "Il Trionfo del Tempo e del Disinganno", di cui è parte Tu del ciel ministro eletto, splendidamente eseguito da Roberta Invernizzi


sabato 18 dicembre 2010

Cuba: repressione e miseria dietro il mito della rivoluzione.

Il regime cubano ha recentemente impedito al dissidente Guillermo Farinas di lasciare il paese per ritirare il Premio Sakharov per la libertà di pensiero, promosso dal Parlamento Europeo.
Bisogna denunciare con chiarezza la drammatica condizione dei cubani. Da sempre il regime castrista imprigiona, tortura e uccide gli oppositori. Ma dopo la caduta dell'Unione Sovietica, con la fine delle sue sovvenzioni dirette ed indirette, anche la situazione economica si è notevolmente deteriorata. Si tratta del cosiddetto "periodo speciale" aperto nei primi anni Novanta e non ancora davvero terminato.
L'URSS cedeva a Cuba petrolio a prezzi inferiori a quelli di mercato ed acquistava zucchero a prezzi superiori. Forniva aiuti finanziari come corrispettivo dell'attività di sovversione svolta dal regime prevalentemente, ma non solo, in America Latina e dell'intervento dell'esercito cubano nel continente africano, soprattutto nelle guerre del Corno d'Africa e nei conflitti scoppiati nelle ex colonie portoghesi Angola e Mozambico.
Cessati gli aiuti sovietici le condizioni di vita sono drasticamente peggiorate. Solo recentemente Cina e Venezuela sono intervenute a sostegno del regime, con forniture a condizioni di favore.
Il governo accusa gli Stati Uniti di essere la causa delle difficoltà economiche cubane. Ma l'embargo statunitense, "el bloqueo", da tempo non è in grado di rappresentare un serio ostacolo alle relazioni economiche di Cuba con il resto del mondo. La situazione presente ha piuttosto origine nell'inefficienza economica del regime, che a differenza di altri regimi comunisti non ha intrapreso un percorso di liberalizzazione economica e non ha tratto vantaggi dalla globalizzazione, evidentemente consapevole che tale apertura avrebbe posto a rischio la sua stessa sopravvivenza.
Un testimone, che pochi giorni fa ha visitato le principali città cubane al di fuori dei comuni circuiti turistici e che deve rimanere segreto per non porre in pericolo i suoi contatti locali, non solo conferma quanto già si sa sulle condizioni di vita, sulla delazione diffusa e sulla repressione poliziesca della dissidenza, ma apre nuovi squarci sulla realtà della sanità e dell'istruzione, fiori all'occhiello del regime.
Sembra che le prestazioni sanitarie non siano in realtà gratuite. Mentre infatti l'opera dei medici in senso stretto non deve essere pagata, non sono gratuiti molti dei materiali e dei farmaci che gli operatori sanitari devono usare. Succede, ad esempio, che l'anestesia durante un'estrazione dentaria debba essere pagata. Come pure che si debbano pagare i punti di sutura necessari per chiudere ferite. I pazienti sono spesso così costretti ad indebitarsi pesantemente per ottenere banali cure mediche ed odontoiatriche. Considerazioni analoghe possono essere fatte per il sistema scolastico. L'accesso ad esso è garantito a tutti. Ma la qualità dell'apprendimento è minata dal pesante indottrinamento ideologico, mentre l'esercizio delle professioni è soggetto a regole e limiti rigidissimi, con retribuzioni assai modeste anche con riferimento agli standards cubani.
Emerge insomma l'immagine di una società immersa nella miseria e nella paura, dove si diffonde un fatalismo senza concrete speranze di rinnovamento.
Altre notizie si possono leggere qui.

giovedì 9 dicembre 2010

Personal computer e telefonino, conoscenza e comunicazione, dieta tecnologica e mobilità sociale.

Su Panorama del 9 dicembre 2010 il professor Luca Ricolfi, sociologo e esperto di analisi dei dati, riflette su un dato già noto, la diversa diffusione di PC e telefonini in ogni paese, tale da consentire l'individuazione per ciascun paese di un proprio "stile" tecnologico.
Scrive Ricolfi: "... sarebbe un errore credere che le tecnologie si sviluppino secondo percorsi simili in tutti i paesi, o anche solo in quelli avanzati...Anche se le varie tecnologie tendono oggi a convergere, la sorgente di tutto sta in due oggetti radicalmente diversi: il computer, originariamente nato per il calcolo scientifico e amministrativo, e poi evoluto, grazie a internet, in strumento di gestione dell'informazione e della conoscenza; e il cellulare, nato per ampliare le possibilità di comunicazione e di interazione. Ed è proprio rispetto a queste due radici distinte, computer e telefonino, conoscenza e comunicazione, che i vari paesi hanno imboccato strade diverse. Ci sono paesi in cui si è affermata una dieta tecnologica dominata dal computer: è il caso dei paesi scandinavi, della Germania, del Giappone. E ci sono paesi in cui si è affermata una dieta tecnologica dominata dal telefonino: è il caso dei paesi mediterranei, Grecia, Spagna, Portogallo e Italia, con il nostro Paese a guidare la graduatoria mondiale".
Come conclude lo stesso professor Ricolfi, i paesi avanzati preferiscono il computer, quelli arretrati il telefonino. Resta da spiegare perchè ciò accade. Viene prima di tutto da pensare alle modalità di avanzamento sociale e professionale, al modo ed alla misura in cui la mobilità sociale si realizza.
Dove conoscenza e informazione sono premiate, dove rappresentano uno strumento importante di ascesa sociale e professionale, l'intero paese avanza, mentre il computer prevale sul telefonino. Dove invece sono prevalentemente le relazioni personali a determinare la posizione professionale e quella sociale, dove la comunicazione interpersonale svolge un ruolo decisivo, i paesi arrancano e domina il telefonino, sia pure sempre più intelligente.
Giustamente osserva Luca Ricolfi: "Forse, a ben pensarci, non dovremmo essere così fieri di tutta la tecnologia che ci portiamo addosso".
Gli articoli di Luca Ricolfi su La Stampa si possono leggere qui, in La voce di Luca Ricolfi:

giovedì 2 dicembre 2010

Scuola italiana: leggiamo la Costituzione.

Gli articoli 33 e 34 della Costituzione italiana disciplinano direttamente scuola ed istruzione:


"L'arte e la scienza sono libere e libero ne è l'insegnamento.
La Repubblica detta le norme generali sull' istruzione ed istituisce scuole statali per tutti gli ordini e gradi.
Enti e privati hanno il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione, senza oneri per lo Stato.
La legge, nel fissare i diritti e gli obblighi delle scuole non statali che chiedono la parità, deve assicurare ad esse piena libertà e ai loro alunni un trattamento scolastico equipollente a quello degli alunni di scuole statali.
E` prescritto un esame di Stato per l'ammissione ai vari ordini e gradi di scuole o per la conclusione di essi e per l'abilitazione all'esercizio professionale.
Le istituzioni di alta cultura, università ed accademie, hanno il diritto di darsi ordinamenti autonomi nei limiti stabiliti dalle leggi dello Stato".


"La scuola è aperta a tutti.
L'istruzione inferiore, impartita per almeno otto anni, è obbligatoria e gratuita.
I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi.
La Repubblica rende effettivo questo diritto con borse di studio, assegni alle famiglie ed altre provvidenze, che devono essere attribuite per concorso".


Il dettato costituzionale è chiaro. Viene disegnata una scuola meritocratica e selettiva dove il diritto di "raggiungere i gradi più alti degli studi" è riservato ai "capaci e meritevoli" ed è reso effettivo, per i "privi di mezzi", "con borse di studio, assegni alle famiglie ed altre provvidenze, che devono essere attribuite per concorso".
Siamo dunque ben lontani dallo "stipendificio/diplomificio/laureificio" poi realizzato dai governi della Repubblica. Una riforma della scuola italiana che si ispiri alla Costituzione deve mirare all'efficienza ed all'eccellenza. Deve cioè avere come primo obiettivo la qualità dell'insegnamento e dell'apprendimento e concentrare su di esso le risorse disponibili.
La scuola non è un ammortizzatore sociale con il compito di assumere i diplomati e i laureati che il mercato del lavoro non riesce ad assorbire. Ad essa è attribuita la funzione di preparare adeguatamente i giovani al lavoro ed a una cittadinanza attiva e responsabile.
Proprio grazie alla scuola i "capaci e meritevoli", anche "privi di mezzi", devono accedere a una ripristinata mobilità sociale, idonea a premiare il merito e a rendere così più dinamico ed efficiente l'intero paese.
Tra gli intellettuali italiani impegnati a promuovere una radicale riforma del sistema scolastico si distingue per coerenza e lucidità il professor Dario Antiseri. Egli ne auspica un rinnovamento imperniato sul principio di sussidiarietà, sui "buoni scuola" e sui "crediti d'imposta", sull'abolizione del "valore legale" dei titoli di studio.
Le considerazioni di Antiseri, chiare sotto il profilo dei principi ispiratori, vanno invece sviluppate e precisate da un punto di vista tecnico giuridico e quanto alla loro compatibilità con le norme costituzionali.
A proposito dei "buoni" e dei "crediti" l'obiezione più frequente fa riferimento alla disposizione "Enti e privati hanno il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione, senza oneri per lo Stato" (art. 33 Cost.). Si tratta di un rilievo superabile se si tiene conto che, con un insegnamento di qualità almeno equivalente, all'attribuzione dei buoni ed alle minori entrate fiscali corrisponde una minor spesa per le scuole statali.
Più complessa è la questione dell'abolizione del "valore legale" dei titoli di studio. La proposta intende rispondere ad un problema grave. Attualmente atenei ed istituti fanno spesso a gara nel rilasciare lauree e diplomi con maggior facilità invece di competere sul piano della qualità dell'insegnamento.
Ma, da un lato, del concetto di "valore legale" appare difficile dare una definizione generale sulla base della legislazione vigente. Da un altro, bisogna fare i conti con il dettato costituzionale: "E` prescritto un esame di Stato per l'ammissione ai vari ordini e gradi di scuole o per la conclusione di essi e per l'abilitazione all'esercizio professionale" (art. 33 Cost).
Da un altro lato ancora, pur riguardando la difficoltà soprattutto le pubbliche amministrazioni, rimane in primo piano la necessità di fissare criteri e strumenti che consentano ad esse di confrontarsi in modo semplice, controllabile ed efficace con la prevedibile ulteriore proliferazione di corsi, istituti e titoli.
La proposta abolizione del "valore legale" insomma non può non essere tradotta in una riforma della certificazione pubblica della qualità dell'insegnamento e della preparazione personale. Certificazione che dovrà essere rigorosa, con effetti ben definiti e rispettosa della libertà dell'impresa e dell'insegnamento. Come sempre pare da privilegiare un approccio comparativo, che conduca ad un attento esame delle soluzioni adottate nei paesi dove libertà e qualità dell'insegnamento superiore raggiungono un livello soddisfacente.


giovedì 25 novembre 2010

Un approccio comparativo, uno sguardo globale. Come si bara nel dibattito pubblico italiano.

In Italia si guarda troppo poco fuori dei confini nazionali. Ma è sbagliato imputare ciò a semplice provincialismo. In realtà, nel dibattito pubblico, più spesso si tratta di uno stratagemma per ingannare e fuorviare. L'attenzione alla situazione internazionale ed il confronto con ciò che accade nelle altre democrazie possono infatti determinare il rovesciamento di giudizi e decisioni.
Anche nel Secondo dopoguerra il nostro paese è stato segnato da conflitti politici e culturali durissimi. Non sembra eccessivo parlare di una guerra civile strisciante, per certi aspetti tuttora in atto. Nessun colpo è stato escluso. Perfino storiografia, dottrina giuridica, giurisprudenza e riflessione sulla scienza hanno costituito terreno di scontro. In un dibattito pubblico siffatto un approccio comparativo ed uno sguardo globale fanno la differenza. Due esempi risultano particolarmente significativi.
Lo schieramento politico dell'Italia repubblicana si è distinto in ambito occidentale per l'egemonia sulla sinistra a lungo esercitata da un forte ed influente partito comunista. Mentre nelle altre democrazie occidentali tale ruolo dominante è stato svolto a sinistra da partiti socialdemocratici o genericamente progressisti.
Il giudizio storico sul Partito comunista italiano è importante per l'individuazione di eventuali responsabilità morali e politiche dei suoi dirigenti. Ma non è privo di rilevanza per l'indagine storico-politica sulle formazioni che ne hanno accolto l'eredità. Se isoliamo certi atti dal contesto storico internazionale ci apparirà un partito genuino protagonista e fautore della democrazia nazionale. Se invece consideriamo relazioni e rapporti di forza internazionali, ma soprattutto la documentazione di fonte sovietica resa disponibile con la caduta dell'URSS, vedremo una forza politica largamente dipendente dalle direttive e dai finanziamenti sovietici.
Così nelle aspre discussioni sul ruolo, sulle prerogative, sulle attribuzioni, sulla posizione costituzionale dei pubblici ministeri e della pubblica accusa. Certe proposte di riforma assumono un senso differente se si prendono in considerazione le soluzioni tradizionalmente adottate nelle altre democrazie liberali.
Giudizi affrettati o più spesso ingannevoli e fuorvianti possono in questo modo essere ribaltati e smascherati. Purchè tutti possano parlare liberamente. Sempre più spesso in Italia si ritiene di poter esercitare la libertà di espressione impedendo ad altri di esercitarla. La vecchia guerra civile strisciante riprende forza. Occorre la massima attenzione. Essa come i fiumi carsici può riemergere e dilagare. Gli sconfitti sarebbero i lavoratori, i giovani, le famiglie, il risparmio, i diritti e le libertà. I cui veri difensori nel nostro paese si sono tradizionalmente manifestati soprattutto nel segreto delle cabine elettorali.

giovedì 18 novembre 2010

La politica estera italiana. Unione Europea, Stati Uniti, Russia e Turchia.

Sergio Romano


E' del 1993, poco dopo la caduta del regime comunista sovietico, quando il nostro paese stava convulsamente passando alla cosiddetta Seconda repubblica, la Guida alla politica estera italiana di Sergio Romano. L'ex ambasciatore in URSS con quest'opera delineò il percorso della politica estera dell' Italia nel mezzo secolo che va dalla caduta del fascismo alla fine dell'Unione Sovietica.
L'Italia era un paese sconfitto, inserito nell'area di influenza occidentale e afflitto da gravi problemi politici, economici e sociali. Alleata degli Stati Uniti aveva al proprio interno, eredità della sua anomala Resistenza, un forte e influente partito comunista, in questi lunghi decenni diretto e finanziato dai sovietici.
L'altro punto di riferimento della politica estera italiana era la Comunità europea, guidata dall'asse "carolingio" franco - tedesco. L'intesa tra Francia e Germania Federale, come scrive lo stesso Romano su Panorama del 18 novembre 2010, "era costruita su una forte convenienza reciproca e sulla condivisione di alcuni ideali. La Germania era il partner economico più forte, ma doveva espiare le colpe del Terzo Reich, era divisa, non aveva la forza militare della Francia. La Francia era economicamente più debole, ma poteva fare valere, nel sodalizio, il suo titolo di potenza vincitrice e nucleare. Insieme i due paesi avevano il peso necessario per garantire l'approvazione della loro linea. Anche coloro a cui l'asse non piaceva dovevano riconoscere che dava un contributo al progresso della costruzione europea".
La politica estera italiana è stata in questo periodo la conseguenza di tali premesse: ambigua, velleitaria, nel contempo ondivaga e durevolmente contenuta in uno stretto spazio di oscillazione. Con un'incisiva espressione Sergio Romano, nell'opera citata (pag.11), parla di "microgollismo" della nostra diplomazia.
Dall'inizio degli anni Novanta ad oggi sono cambiate tante cose. L'Unione Sovietica non c'è più. La globalizzazione ha fatto emergere nuove potenze mentre quelle occidentali si sono relativamente indebolite, in particolare gli Stati Uniti, fiaccati non solo dalla crisi economica determinata dall'eccessivo consumo a debito, ma anche dall'erosione delle tradizionali fondamenta culturali e morali della loro struttura politico-sociale.
Nella stessa Unione Europea l'asse franco - tedesco ha mutato profondamente natura, perdendo la connotazione ideale e strategica che lo caratterizzava, come fa notare il professor Romano nel suo scritto su Panorama.
Un dato appare particolarmente importante nell'Italia degli ultimi venti anni: la nascita di un tendenziale bipolarismo, l'alternanza tra governi di centrodestra e di centrosinistra. In politica estera, mentre i governi di centrosinistra hanno tentato di riprendere l'impostazione tradizionale dei primi decenni repubblicani, pur essendone venuti meno i presupposti, i governi di centrodestra hanno provato ad approfittare dei nuovi spazi e delle mutate opportunità, con alterni risultati.
Tra i loro successi vanno segnalati il significativo contributo al riavvicinamento tra Russia e Alleanza Atlantica e la cosiddetta diplomazia commerciale, molto attiva in particolare nell'Est Europa, nei Balcani, in Nord Africa e nel Vicino Oriente.
Recentemente il ministro degli esteri Franco Frattini ha indicato in una intervista all'Occidentale le linee essenziali della attuale politica estera italiana.
Secondo Frattini "più che in termini di "bastione", come abbiamo fatto per decenni, dovremmo... abituarci ben presto - e un po' tutti - a ragionare in termini di una NATO quale possibile cerniera strategica di sicurezza fra Oriente ed Occidente. Ed in questo disegno Mosca è chiamata a fare la sua parte non in contrapposizione ma insieme all'Alleanza Atlantica".
A proposito della Turchia ha detto: "Alla Turchia non va applicata una strategia di "containment", al contrario Ankara deve far parte a pieno titolo del sistema occidentale anche attraverso la sua adesione all'Unione Europea che l'Italia appoggia attivamente".
La diplomazia italiana guidata da Frattini segue anche con la Turchia le linee ormai tradizionali della politica estera degli Stati Uniti. Ma qui si manifesta un problema di ordine generale. L'attrazione nel sistema occidentale di paesi come la Russia e la stessa Turchia, alle prese con eredità storico-culturali che ne frenano il passaggio alla libera democrazia, deve avvenire con una costante realistica attenzione ai risultati via via ottenuti e adottando le necessarie cautele. Doppiezze e riserve mentali devono trovare una ferma opposizione.


mercoledì 10 novembre 2010

Stephen Jay Gould. Anche lo scienziato non sa e non può.


S.J.Gould

Stephen Jay Gould, nato nel 1941 a New York e scomparso nel 2002, è stato un insigne biologo e paleontologo. Ha insegnato ad Harvard e alla New York University. Come storico della scienza e divulgatore ha esercitato una profonda influenza. Le sue opere sono state tradotte in tutto il mondo.
Cresciuto in una famiglia ebrea del ceto medio, con genitori progressisti ed aperti, era agnostico e politicamente vicino alla sinistra radicale americana.
Come scienziato della natura si è dedicato prevalentemente allo studio dell'evoluzione, contribuendo all'elaborazione della teoria degli equilibri punteggiati. Secondo tale teoria, nel corso della lunga storia dell'evoluzione della vita sulla terra, i cambiamenti evolutivi si concentrano in periodi relativamente brevi, a causa di eventi intensamente stressanti.
Ma forse ancor più rilevante è stato il suo contributo alla riflessione sulla scienza. In quest'ambito si è distinto per l'incisivo approccio critico, per la vastità degli interessi e soprattutto per la profonda comprensione degli esiti migliori della filosofia occidentale.
Sono da ricordare, in particolare, le sue idee sulla compatibilità tra fede religiosa e scienza, le sue convinzioni indeterministe, la sua accettazione del dualismo fatti - norme e della inderivabilità delle prescrizioni morali dalle descrizioni della natura (legge di Hume).
Ha sostenuto la compatibilità tra scienza e fede sulla base della distinzione dei loro ambiti. La scienza descrive la natura, mentre la religione si occupa di morale e del rapporto tra l'uomo e la divinità. Gould così sostanzialmente ha ripreso il pensiero di Galileo Galilei, secondo il quale la scienza ci dice come va il cielo, mentre le Scritture ci indicano come si va in Cielo.
Gould, assertore dell'inderivabilità dei valori dai fatti, fu sempre vivace fautore della libertà di coscienza, contrario a ogni positivismo morale. Il vantaggio evolutivo rappresentato da determinati abitudini e comportamenti non ne determina la bontà sotto il profilo morale.
Egli ha spesso messo in rilievo la grande asimmetria tra la costruzione e la distruzione dei sistemi complessi, che sono costruiti lentamente ma possono essere distrutti rapidamente, spesso in pochi istanti da eventi catastrofici. Gould è stato indeterminista non solo rispetto alla natura e all'evoluzione indistintamente, ma anche con riguardo particolare alla storia umana. L'uomo non può prevedere il futuro. Egli ha esposto lucidamente la sua posizione con queste parole, da Le pietre false di Marrakech, ed. 2007, pagg. 366 e 367:

"L'uomo può anche essere l'organismo più intelligente che sia mai apparso sulla faccia della Terra, ma rimane estremamente inetto su certi problemi, specialmente quando l'arroganza emotiva si combina con l'ignoranza intellettuale. L'incapacità di predire il futuro è fra le nostre maggiori inettitudini, non tanto - in questo caso - per un limite del nostro cervello, quanto come conseguenza di principio della genuina complessità e dell'autentico indeterminismo del mondo.
Conosco soltanto un antidoto al pericolo principale derivante da questo miscuglio incendiario di arroganza e ignoranza. Data la nostra incapacità di predire il futuro, e specialmente la nostra frequente incapacità di prevedere, in un futuro non immediato, le funeste conseguenze di fenomeni che inizialmente sembrano insignificanti e addirittura risibili (qualche renna malata di carbonchio oggi, un'intera popolazione umana colpita dall'epidemia domani), un freno morale potrebbe essere la nostra unica àncora di salvezza.
Il buon senso, nella forma vitale di freno morale, è stato sfidato nel modo più serio e grave dagli scienziati che sviluppano tecnologie d'avanguardia e immaginano perciò di poter controllare, o almeno prevedere con precisione, qualsiasi sviluppo futuro. Io faccio parte della comunità degli scienziati, ma vorrei illustrare il valore del freno morale come contrappeso a vie pericolose tracciate o dall'autocompiacimento o da un'attività deliberata, e alimentate dalla falsa fiducia di saper prevedere il futuro."

Di Gould si può leggere in rete questo brillante scritto, compreso anche nell'ultimo volume pubblicato in Italia dello scienziato statunitense, I Have Landed.
Stephen Jay Gould è stato uno dei grandi scienziati capaci di pensare criticamente la scienza. Rappresenta un ottimo rimedio contro i vizi del dibattito sulla scienza in corso nel nostro paese, strumentalizzato ed avvelenato da chi se ne avvale nella guerra politico culturale in atto, soffocandolo nelle angustie di un positivismo di stampo ottocentesco.


venerdì 5 novembre 2010

Movimento del Tea Party. Cosa devono insegnare quelle vecchie casse di tè.

I coloni americani che nel 1773 gettarono il tè inglese nelle acque del porto di Boston erano esasperati non per le tasse troppo alte sul tè bensì, paradossalmente, per l'esenzione da tasse e dazi sul tè stabilita con il Tea Act a favore della Compagnia inglese delle Indie orientali.
La drastica riduzione del carico fiscale consentì alla Compagnia delle Indie di vendere il tè nelle colonie americane a prezzi fortemente ribassati. I commercianti e i contrabbandieri di tè americani furono danneggiati e reagirono buttando in mare le casse di tè della Compagnia. Si trattò soprattutto, insomma, di una questione di concorrenza.
La galassia di gruppi che formano il movimento del Tea Party ha svolto un ruolo decisivo nel passaggio di consensi verso i candidati repubblicani nelle recenti elezioni statunitensi. Meno tasse, meno stato, più trasparenza, ritorno alla Costituzione, più spazio alla iniziativa ed alla libertà individuali, meno potere a Wall Street. Queste le idee guida del movimento.
Le vecchie casse di tè nel porto di Boston devono però ricordare ai sostenitori contemporanei del Tea Party la dimensione globale dei problemi. La libertà che si chiede per l'economia è vantaggiosa in ambito internazionale? A quali condizioni?
Vale poi la pena di chiedersi se uomini come quelli che crearono una grande nazione ci sono ancora. Quei coloni avevano spalle robuste e spesso una solida famiglia alle spalle.
Quanti americani di oggi hanno le qualità necessarie per assumersi la responsabilità di sè e del proprio paese? Quanto è significativa la caduta dell'etica della responsabilità e del lavoro?
Alcune grandi compagnie statunitensi hanno bilanci in ordine e si affermano nei mercati internazionali. Ma quante aziende invece non sono competitive? Quante non sono in grado di affrontare con successo la concorrenza straniera?
Se lo stato diventa più leggero, meno invadente ed oppressivo, gli individui e le imprese, le famiglie, le chiese, le associazioni sapranno riprendere il posto che a loro spetta? La ricostruzione delle istituzioni non basta. Occorre una ricostruzione morale dei cittadini ed una ripresa di quella libertà responsabile che ha fatto grandi gli Stati Uniti.
Il movimento del Tea Party è insieme espressione della crisi presente e motivo di speranza. Per i repubblicani, che porteranno alle urne sostenitori finora non attivi elettoralmente. Per il paese, che ha bisogno di trovare in una tradizione rinnovata e ravvivata ragioni, strumenti ed obiettivi per risalire la china.
Ma devono emergere leaders capaci di coordinare spinte contraddittorie, di trasformare in efficiente amministrazione aspirazioni, sentimenti e volontà che nascono anche dal rifiuto di fare i conti con la complessità dei problemi.
In bocca al lupo USA!


lunedì 1 novembre 2010

Teoria del complotto o della cospirazione. La leggenda che allontana dalla verità e aiuta i peggiori.






Soprattutto in periodi di crisi vengono con insistenza proposte spiegazioni complottiste e cospirative dei mali che ci affliggono. Essi sarebbero in larga misura il frutto intenzionale dell'opera di potenti, o gruppi di potenti, cinici ed avidi. Si tratta di una lettura della realtà irrazionale, errata e fuorviante. Perchè i potenti non sono abbastanza potenti, sbagliano, ignorano. La loro condotta produce conseguenze impreviste, non volute.
Le teorie del complotto affascinano. Forniscono una spiegazione facile ed immediata, ma ci allontanano dalla verità, che raramente è evidente, manifesta. La realtà è sotto i nostri occhi, ma è complessa, sfuggente. Se vogliamo tentare seriamente di risolvere i nostri problemi dobbiamo accettare la complessità, fare i conti con essa, lavorare duramente per scoprire errori, responsabilità e possibilità. Che, appunto, sono visibili ma difficili da leggere, da comprendere, da realizzare. Quando un intellettuale imputa i nostri guai a complotti e cospirazioni, se non ci sta vendendo un romanzetto, diffidiamo. Difficilmente ci dirà cose interessanti.


Scrive Karl Popper in Congetture e confutazioni (pagg. 580 e 581 - ed. 2000):

la "teoria sociale della cospirazione... E' l'opinione secondo cui tutto quel che accade nella società - comprese le cose che la gente, di regola, non ama, come la guerra, la disoccupazione, la povertà, le carestie - sono il risultato di un preciso proposito perseguito da alcuni individui, o gruppi potenti. Quest'opinione è assai diffusa, anche se si tratta, in certo senso, indubbiamente, di una specie di superstizione primitiva... è, nella sua forma moderna, il tipico risultato della secolarizzazione delle superstizioni religiose."

"Contro questa teoria sociale della cospirazione non sostengo, ovviamente, che le cospirazioni non abbiano mai luogo. Affermo invece due cose: in primo luogo, che non sono molto frequenti e non modificano le caratteristiche della vita sociale. Supposto che le cospirazioni cessino, ci troveremmo ancora di fronte, fondamentalmente, agli stessi problemi di sempre.
In secondo luogo, sostengo che esse riescono assai di rado. I risultati conseguiti, di regola, differiscono ampiamente da ciò cui si mirava (si pensi, ad esempio, alla cospirazione nazista)".

"...comprendiamo, chiaramente, che non tutte le conseguenze delle nostre azioni sono intenzionali, e dunque, che la teoria sociale della cospirazione non può essere vera, perché equivale all'asserzione che tutti gli eventi, anche quelli a prima vista non premeditati da alcuno, sono l'esito deliberato dell'azione di coloro che ad essi miravano per interesse".

Concetti analoghi Popper ha espresso nella Società aperta e i suoi nemici, in particolare nel suo capitolo quattordicesimo.

Per la comprensione del problema è ancora utilissima la lettura del Saggio sui potenti di Piero Melograni (ed. 1977), che scrive (pag. 123):

"Ma in tutti i luoghi l'assetto politico-sociale è il risultato di tendenze e di forze numerose e complesse, materiali e spirituali, razionali e irrazionali, difficilmente controllabili. Nel continuo, intricato, ondeggiante accavallarsi di tutte queste forze e tendenze deve essere cercata la spiegazione delle diverse situazioni storiche nelle quali gli individui e le collettività si trovano concretamente ad operare. Gli stessi capi... sono profondamente condizionati e spesso addirittura travolti dalla circostante realtà".




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